Lo scorso anno Javier Milei partecipò al forum di Davos, facendo un discorso memorabile, di quelli che alla platea di manager arruolati da Klaus Schwab non capita spesso di sentire. L’abilissimo fondatore del World Economic Forum ha costruito tutta la sua carriera attorno a parole d’ordine come “responsabilità sociale dell’impresa” e, con la pandemia, ha sostenuto la necessità di un “grande reset” per ricostruire una economia basata finalmente sugli stakeholder anziché sugli shareholder. E’ sempre la stessa polemica contro il motivo del profitto, l’avidità che guasterebbe ogni cosa, portata avanti con singolare efficacia da un signore che, beato lui, con le sue prediche (e grazie a una straordinaria capacità organizzativa) è diventato milionario (anche se le stime sulla sua net worth sono discordanti: qualcuno scrive 25 milioni, qualcun altro 100, qualcuno addirittura 1,7 miliardi).
Milei a Davos mise i piedi nel piatto e fece una autentica lectio magistralis sul capitalismo e sul declino dell’Occidente:
Sono qui oggi per dirvi che l’Occidente è in pericolo. È in pericolo perché coloro che dovrebbero difendere i valori occidentali si ritrovano cooptati da una visione del mondo che porta inesorabilmente al socialismo e, di conseguenza, alla povertà. Purtroppo, negli ultimi decenni i principali leader del mondo occidentale - alcuni motivati dal desiderio benpensanti di voler aiutare gli altri e altri dal desiderio di appartenere a una casta privilegiata - hanno abbandonato il modello della libertà per diverse versioni di ciò che chiamiamo collettivismo.
Noi siamo qui per dirvi che gli esperimenti collettivisti non sono mai la soluzione ai problemi che affliggono i cittadini del mondo, ma, al contrario, ne sono la causa. Credetemi, nessuno meglio di noi argentini può testimoniare queste due questioni. Quando abbiamo adottato il modello della libertà, nel lontano 1860, in 35 anni siamo diventati la prima potenza mondiale. Mentre quando abbiamo abbracciato il collettivismo, negli ultimi 100 anni, abbiamo visto come hanno cominciato a diventare sistematicamente più poveri fino a scendere al posto numero 140 nel mondo. Ma prima di poter affrontare questa discussione, sarebbe importante esaminare i dati che supportano perché il capitalismo di libera impresa non è solo l’unico sistema possibile per porre fine alla povertà nel mondo, ma è anche l’unico sistema moralmente desiderabile per farlo.
Nel 2025, il discorso di Milei è stato un po’ oscurato da quello, via Zoom, di Donald Trump, il primo dopo il ritorno alla Casa Bianca. Ma anche quest’anno, come ha scritto la Radio Svizzera sul sito, “Milei ha attaccato il WEF… al WEF”. Una volta “sceso a valle”, prima di prendere l’aereo che lo avrebbe riportato in Argentina Milei ha ricevuto il Premio Röpke del Liberales Institut di Zurigo. Ho avuto la possibilità e il piacere di assistere alla cerimonia. Milei era rilassato, la sua conferenza aveva un tono diverso da quelli, più barricadieri, per cui è famoso, si è quasi commosso ricordando come Wilhelm Röpke fu spinto a occuparsi di economia dall’irperinflazione tedesca e lo stesso in qualche modo è capitato anche lui, quando da ragazzo smise di giocare a calcio per immergersi nelle scienze sociali. Non sappiamo se abbiamo perso un altro Maradona, sicuramente abbiamo guadagnato un Maradona della politica. Milei ha una capacità di cambiare registro che i politici italiani, per esempio, hanno perso. Sa come parlare per scioccare chi lo ascolta (tattica nella quale è maestro), sa esprimersi correntemente nella lingua degli economisti, può “suonare” una piazza di migliaia di persone come un direttore d’orchestra. Ma la cosa più interessante è la reazione che sta suscitando in giro per il mondo. A Zurigo, prima di Milei sono intervenuti i diversi “padroni di casa”, oltre che Philip Bagus, autore di un libro sull’ “era Milei” che in Germania è un piccolo caso letterario. Si tratta di bravi studiosi ed eccellenti persone abituate al pubblico composto, magari ossequioso, spesso un po’ annoiato di una conferenza universitaria. Il mondo in cui sono (siamo) cresciuti è quello, e di lì viene anche il modo in cui ci si esprime. Eppure, tutti costoro hanno sentito il bisogno di mimare, retoricamente parlando, qualche passo rock e di provare ad arringare i 600 partecipanti, imprenditori, manager, docenti universitari, tutti o quasi provenienti dal mondo tedesco, gente quadrata, di quelli che alla cravatta fanno il nodo semplice, che avevano una voglia matta di mettersi a gridare: ¡Viva la libertad, carajo!
In dodici mesi o poco più, Milei è diventato una rock star della politica mondiale. Ha investito molto sulla costruzione del suo personaggio (sono evidenti i segni della pratica televisiva) e sul costruirsi una dimensione internazionale: quest’ultima cosa probabilmente utile anche al fine di rendere più salda la sua posizione in Argentina, dove lo attendono, il prossimo ottobre, elezioni fondamentali per consolidare la sua difficile posizione in Parlamento. In questo processo, Milei ha cercato degli alleati in una serie di politici non molto amati dall’establishment globale: Viktor Orban, Giorgia Meloni, Donald Trump. Per quanto dopo la sua vittoria abbia detto che “abbiamo decretato la fine della notte populista e la rinascita di una Argentina liberale e libertaria”, i suoi gesti eclatanti, a cominciare dal famoso Afuera! e dalla motosega brandita in campagna elettorale, inducono molti a considerarlo un “populista”. Se il populismo è uno stile della politica, sicuramente è lo stile dei nostri tempi, ai quali Milei appartiene. Il suo messaggio, però, è assai diverso dagli altri.
Questo libro sul pensiero di Javier Milei è uscito lo scorso giugno ed è opera di un economista argentino trapiantato in Spagna, Carlos Rodríguez Braun, persona di straordinaria pacatezza e quindi difficilmente considerabile un “mileiano” (a proposito di mileiani: a Ramiro, un bambino che avvicinandosi gli dice “sono mileiano”, Milei risponde “ti ringrazio tanto, ma preferisco che tu sia liberal-libertario”). Rodríguez Braun non ha una frequentazione personale molto intensa con Milei, anche se conosce bene Alberto Benegas Lynch e soprattutto Jesús Huerta de Soto, l’uno e l’altro maestri riconosciuti (ed affettuosamente omaggiati) dal Presidente. Proprio per questo, la sua è la posizione ideale per scrivere un libro onesto, che simpatizza con Milei ma lo guarda da una certa distanza. In poche pagine, ma dense e soprattutto scritte con esemplare chiarezza, esamina i predecessori storici di Milei, i suoi orientamenti rispetto alle “politiche sociali”, la sua lettura della politica, l’impianto del suo pensiero economico.
Il saggio comincia con il discutere le accuse di plagio, ricorrenti nei confronti di Milei quando la sua attività era essenzialmente quella dell’opinionista e del divulgatore. Nel 2022, una rivista argentina pubblica un articolo intitolato “Javier Milei, el gran copiòn”. E’ difficile sostenere che Milei non abbia utilizzato pezzi altrui senza riconoscere sempre la fonte. Per Rodríguez Braun,
è un autore poco attento e disattento ai suoi lettori, che spesso vengono anche sommersi da equazioni, reperibili nei manuali universitari, che, pur essendo accettabili per un economista di professione e dimostrando che Milei ha certamente una certa agilità matematica, risulteranno sconvolgenti per il grande pubblico.
Nel merito delle accuse, si potrebbe notare che comunque sono meno gravi di quelle mosse, per esempio, all’ex ministro della difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg o al grande nemico di Milei, il premier spagnolo Pedro Sanchez, che hanno allegramente copiato pezzi della loro tesi di dottorato (nel caso di Sanchez, la difesa è che ne avrebbe copiato solo il 15%). Milei ha sostanzialmente utilizzato in articoli di giornale pezzi tratti da autori, come Murray Rothbard, che (questo lo aggiungo io, non lo sostiene Rodríguez Braun) sarebbero stati ben contenti lo avesse fatto. Inoltre, pretendere chissà quale originalità di pensiero da una figura che opera fra il giornalismo e la politica è veramente bizzarro. E’ vero che Milei, a differenza di Ronald Reagan o Margaret Thatcher, aveva e ha ambizioni intellettuali. Ma il suo orizzonte non è mai stato quello della ricerca, semmai quello del dibattito pubblico.
Rispetto al suo modo di intendere la politica, Rodríguez Braun sottolinea come Milei sia il primo vero outsider della storia argentina, sotto due diversi aspetti: non ha una precedente esperienza politica o amministrativa a nessun livello di governo e non appartiene a nessuna “grande famiglia” (se non alla famiglia intellettuale liberale), del tipo che tirano, in Argentina e non solo, i fili del potere. Inoltre, Milei ha un approccio che assieme potremmo considerare “realista” e “anti-istituzionale”: realista perché fondato su quella che talvolta viene chiamata “teoria liberale della lotta di classe”, “anti-istituzionale” in quanto refrattario a tutte le retoriche del senso dello Stato, ovvero all’idea che esso possa essere, di per se stesso, un fine. La teoria liberale della lotta di classe, che precede e ispira quella marxista (lo ammetteva lo stesso Marx), spiega come lo Stato sia uno strumento di sfruttamento e come la linea che più di tutte divide la società sia quella fra contribuenti e “consumatori di tasse”. L’Europa moderna, sosteneva (semplifico) Augustin Thierry, porta ancora i segni delle antiche conquiste: i conquistatori sono diventati il ceto politico-burocratico-funzionariale, i conquistati non hanno potuto che dedicarsi allo scambio e all’economia, perché le altre carriere erano loro interdette. Ne può discendere un atteggiamento “anti-istituzionale”, che è in tensione con un altro aspetto del liberalismo, ovvero l’enfasi sull’importanza di regole formali che consentano il libero gioco sociale. Ma come fanno queste regole a essere effettivamente liberali e buone, se sono l’esito di classi politiche con un atteggiamento “estrattivo”? La questione è complicata, entra in gioco l’evoluzione istituzionale e culturale. Milei tende a tagliar corto e trova ispirazione, sottolinea Carlos Rodriguez Braun, in alcuni saggi dell’ultimo Rothbard, che immaginava che la strategia migliore per il libertarismo (ovvero per una teoria politica incentrata sulla difesa più radicale dei diritti individuali) fosse la costruzione di una coalizione “populista di destra”. Le parole ogni tanto creano confusione, e questo sicuramente è uno di quei casi. A ogni modo, assai attuale nella visione di Rothbard (reinterpretata da Milei) è l’idea che alcune delle nostre istituzioni attuali (a cominciare dalla banca centrale e da una finanza alimentata da una politica monetaria lassista) tendano a produrre una classe abbiente totalmente compromessa con esse, e quindi ostile al libero mercato. Anche qui, c’è poco di nuovo sotto il sole, già Pareto distingueva fra speculatori e redditieri, entrambi necessari a una economia moderna, sottolineando come i momenti di espansione dello Stato (in primis, la guerra) erano utilizzati dai primi a proprio vantaggio mentre ai secondi toccava pagarne il conto.
Su questi temi, i discorsi di Milei possono sembrare davvero affini a quelli di altri leader “populisti”, ma hanno un retroterra assai diverso. Discutibile quanto si vuole, ma intellettualmente solido.
Rispetto ai valori di Milei, è importante quanto Rodriguez Braun scrive sull’accusa più infamante rivolta al Presidente: ovvero quella di strizzare l’occhio ai nostalgici della dittatura del generale Videla. Il 24 di marzo è l’anniversario del golpe militare di Videla ed è dal 2006 il Día de la memoria por la verdad y la justicia. Lo scorso anno, Milei da presidente ha parlato di “verità e giustizia complete”.
L’invito di Milei era questo:
Nel 48° anniversario dello scontro tra la guerriglia e la dittatura militare che si autodefiniva “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, il 24 marzo è una data che ci invita a riflettere e a consolidare la piena memoria di quanto accaduto in quel periodo storico.
La data invita a ripudiare sia l'autoritarismo e gli eccessi dello Stato, sia le sovversioni armate che violano lo Stato di diritto. È anche una data che invita a valorizzare la democrazia come sistema fondamentale che ci permette di esercitare la Libertà.
La “piena memoria” significa non pensare che tutte le posizioni si equivalgano, ma ammettere che, come sempre quando un Paese cammina sul ciglio dell’abisso, la violenza e la barbarie non sono mai il monopolio di una parte sola. E’ venuto il tempo, secondo Milei, di dare “il meritato riconoscimento delle vittime della guerriglia, da parte di gruppi terroristici come Montoneros, Ejército Revolucionario del Pueblo, Fuerzas Armadas Revolucionarias, Fuerzas Armadas Peronistas”.
L’esito di queste parole è stata
una furiosa reazione contro il presunto negazionismo di Milei, come se le nuove autorità argentine avessero deciso di rompere la vera storia del Paese. Non era successo nulla del genere, ma qualcos'altro: per la prima volta, un governo argentino aveva osato mettere in discussione quella che il kirchnerismo aveva imposto come narrazione.
In realtà, si trattava di una favola, che consisteva nel ridurre la storia della violenza politica nel Paese esclusivamente a militari genocidi che, per pura malvagità, avevano cospirato nel 1976 per rovesciare il governo di Isabel Martinez de Peron, instaurare una tirannia contro la volontà del popolo e causare un'indicibile strage. Si pensava semplicemente che i diritti umani fossero stati violati solo dalle Forze Armate.
Questa riduzione veramente negazionista (...) non ha alcuna base storica ed è un caso di manipolazione del passato per promuovere un'agenda politica nel presente.
Rodriguez Braun ripercorre la storia argentina e la sua fase liberale, inaugurata dalla costituzione del 1853, nella stesura della quale giocò un ruolo Juan Bautista Alberdi, liberale discepolo di Adam Smith (fra parentesi, forse l’unico pezzo di Alberti mai tradotto in italiano si trova qui). Sottolinea come a lungo il liberalismo sia stato patrimonio sia della destra che della sinistra, ricordando come Milei ami citare i socialisti argentini che difendevano la moneta aurea. Parimenti, ricorda come a un certo punto l’interventismo sia diventato (in Argentina ma un po’ dappertutto) il vero trait d’union delle forze politiche, al punto che Alfredo Gómez Morales, ministro delle finanze di Peron, poteva sostenere di essere in piena continuità coi predecessori conservatori.
Se Milei si richiama sempre alla vecchia Argentina liberale, nel suo successo conta un lessico quanto più esplicito e radicale, che è quello del libertarismo contemporaneo. Entrato nell’agone politico, egli ha un po’ corretto la linea, dicendo di essere “anarco-capitalista in teoria ma sostenitore dello Stato minimo in pratica” ma non c’è dubbio su quali siano i suoi riferimenti intellettuali. Probabilmente la sua avventura era cominciata nello spirito di un politico-predicatore, alla Ron Paul, con l’obiettivo cioè di usare il pulpito di un partito per fare entrare alcune idee nella discussione pubblica. Le circostanze lo hanno portato a fare altro e i risultati non stanno tardando ad arrivare. L’Argentina ha raggiunto il pareggio di bilancio nel 2024, partendo da un deficit di oltre il 5%, la spesa pubblica è stata ridotta del 28% in termini reali nei primi 11 mesi dell’anno, quest’anno è attesa una crescita del 6% del PIL. In generale, non si è mai visto un aggiustamento non solo tanto profondo, ma giustificato non sulla base di raccomandazioni delle istituzioni internazionali bensì dal profondo convincimento che “il rigore fiscale è una forma di rispetto per il cittadino, che paga le tasse sotto coercizione, perché un politico non può sperperare il denaro pubblico come se fosse infinito”. Se i pensatori che Milei cita (o non cita) vi sembrano marginali o periferici, vi invito a considerare con quanta forza abbiano però lasciato il segno nel suo modo di ragionare, e ora di governare.
L’azione di Milei ha a che fare, come quella di tanti leader contemporanei, con l’immigrazione. In un senso però un po’ diverso rispetto a quello prevalente. “Nel 2019 una signora disse a Milei, in una pasticceria, «sei l’unica speranza che ho perché mio figlio non se ne vada»”. Il Presidente parla dell’emigrazione argentina come prova del declino del Paese e annuncia che l’Argentina tornata grande richiamerà energie, capitali e teste da tutto il mondo. A Natale, un amico mi raccontava di un suo amico, imprenditore, che ha lasciato Milano per andare a vivere a Buenos Aires. Lì per lì ho pensato fosse un po’ matto, ma ogni tanto i matti vedono più chiaro dei sani.
Carlos Rodríguez Braun, El pensamiento de Milei, Madrid, LID Editorial, 2024, pp. 135.