Il virus e i tifosi
I giornali dedicano alla pandemia grossomodo dieci pagine al giorno, da quasi due anni. Inevitabilmente tutti si ripetono e i diversi attori dell’opinione pubblica pandemica hanno ormai ciascuno la sua parte in commedia, il suo canovaccio bell’e pronto.
Ogni tanto però esce ancora qualche articolo da cui si può imparare qualcosa. Questo di Adam Grant, per esempio. Grant è uno psicologo dell’organizzazione e ragiona sulla comunicazione della pandemia, sottolineando come la costante enfatizzazione dell’elemento drammatico, lo sfiorare tutte le corde della paura, possa avere, soprattutto in una fase come questa, effetti controproducenti. Ci sembra di essere in un film già visto, viviamo una “apocalisse noiosa”. Puntare, nella comunicazione, sulla paura può servire a spingere le persone a compiere un singolo gesto: per esempio, fare la prima dose di vaccino. Anche la paura però può “saturarsi”: è difficile che sulla base della paura si possa fare la seconda dose e poi la terza. Guai poi se per i vaccini Covid-19 servissero richiami periodici. Non è spaventando le persone che le convinciamo, anno dopo anno, a fare il vaccino anti-influenzale. Chi si vaccina lo fa pensando che gli convenga, che sia opportuno date le sue condizioni di salute, la sua età o i suoi piani di vita e si tratta del tipo di abitudine che si prende, di solito, sulla base di uno o più colloqui col medico di famiglia o con altri professionisti.
Per Grant, la comunicazione non è stata all’altezza dei progressi della scienza, negli ultimi mesi, nel fronteggiare la malattia. Che poi dire che non è stata all’altezza è dire poco. In alcuni Paesi, per esempio da noi, è stata proprio pessima.
Con Gilberto Corbellini abbiamo scritto su Linkiesta che
quello che più servirebbe oggi è esattamente quello che non accadrà. Un «bel lockdown» preventivo (per utilizzare l’espressione suggestiva di un esperto di salute pubblica che va spesso in televisione) sì, ma dei professionisti dell’allarmismo: esperti o presunti tali, statistici prestati all’epidemiologia, giornalisti a cui l’emergenza provoca estasi adrenaliniche.
Abbassiamo il volume del discorso pubblico. Non per censurare nessuno, non per lasciare in pace il manovratore ma semplicemente per ridurre le pressioni sul governo a rilanciare, innanzi a ogni, pur dubbio, cambio di scenario.
Una comunicazione urlata, che mira a spaventare e non a spiegare, venata di motivi paternalistici non aiuta la corretta gestione di un fenomeno complesso come la pandemia. In compenso crea risentimento, soffia sul fuoco della polarizzazione, tiene in caldo le braci del populismo.
L’articolo di Grant è interessante, pieno di spunti e sottolinea i rischi di una comunicazione paternalista, che non prende sul serio le paura delle persone, che per esempio espone alla pubblica gogna i NoVax anziché cercare di parlarci e convincerli dei benefici del vaccino. Si dirà che sono fenomeni residuali. E’ vero, in Italia siamo stati molto più saggi e molto più responsabili di quanto suggerisca il paternalismo della comunicazione pubblica - e i numeri della vaccinazione lo dimostrano. Ma non è irragionevole temere che questo modo di parlarsi, questo sguazzare nelle logiche della polarizzazione, possa avere effetti più e non meno rilevanti col passare del tempo. La prima dose, appunto, si può fare spinti dalla paura. La terza o la quarta probabilmente no. La stessa insistenza sull’introduzione di politiche più restrittive e dell’obbligo vaccinale viene letta come conferma alle proprie tesi da parte dei complottisti.Forse insistere sulla buona informazione e sulla persuasione non è solo un vezzo da illuministi fuori tempo massimo.