James R. Flynn (1934-2020) è stato un importante studioso dell’intelligenza umana, noto soprattutto per il “Flynn effect”, cioè l’aumento del quoziente intellettivo medio nel corso degli anni, da lui riscontrato in diversi Paesi. Flynn intraprese queste ricerche anche perché era un militante politico, appassionato alla causa dei diritti civili, e voleva confutare i lavori di Arthur Jensen, il quale aveva sostenuto che le differenze razziali contribuissero a spiegare i divari in termini di QI. Flynn aveva a cuore la propria causa ma esaminava le ricerche di Jensen “di per sé”: si poneva il problema del rigore e della serietà del suo interlocutore, prima che delle sue posizioni. Più tardi, ebbe un intenso dialogo con Charles Murray, a partire dalla pubblicazione di The Bell Curve, dove Murray e il suo coautore Richard Herrnstein sostengono che la distribuzione dell’intelligenza nella società americana abbia la forma di una gaussiana. Il QI è un buon predittore della performance accademica e del successo nella vita, la sua distribuzione nella società è fortemente polarizzata, le politiche di welfare non intaccano ma anzi consolidano questa polarizzazione. Di Murray, autore controverso e conservatore, Flynn, che per tutta la vita fu un socialdemocratico, scrive con affetto. Un affetto non solo personale ma “scientifico”: il confronto con tesi diverse dalle nostre, ma ben argomentate, è il modo in cui si mettono a punto argomenti migliori.
Questo libro, uscito nel 2020, avrebbe dovuto vedere la luce per una University Press prestigiosa, come i precedenti dell’autore, ma, di rifiuto in rifiuto, caracollò fino alla piccola Academica Press (il titolo è una piccola vendetta: A Book Too Risky to Publish). E’ un atto d’amore per l’istituzione universitaria e un grido di dolore assieme. Flynn discute i boicottaggi di conferenzieri “sgraditi”, concetti come quello di “trigger warning” (l’avviso che una determinata affermazione potrebbe irritare qualcuno) o “safe space” (un ambiente nel quale i “disagi” delle persone diventano oggetto di una sorta di seduta d’analisi collettiva) e più in generale la trasformazione dell’Università degli ultimi anni.
Il punto di partenza di Flynn sono pagine famose dell’On Liberty di John Stuart Mill dove si legge che
impedire l’espressione di un’opinione è un crimine particolare, perché significa derubar la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall’opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l’opinione è giusta, sono privati dell’opportunità di passare dall’errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto con l’errore.
Quando le opinioni non possono venire espresse, noi usciamo da un ambito nel quale conta che cosa è vero e che cosa non lo è (che cosa noi possiamo, in un certo momento, sulla base dei nostri strumenti e delle nostri cognizioni del mondo, ritenere vero e che cosa, nella medesima situazione, escludiamo lo sia) ed entriamo nella lotta politica.
Sempre Mill:
Vi è la massima differenza tra presumere che un’opinione è vera perché, pur esistendo ogni opportunità di discuterla, non è stata confutata, e presumerne la verità al fine di non permetterne la confutazione. E’ proprio la completa libertà di contraddire e confutare la nostra opinione che ci giustifica quando ne presumiamo la verità ai fini della nostra azione; e solo in questi termini chi disponga di facoltà umane può trovare una sicurezza razionale di essere nel giusto.
Se quattro lustri fa qualcuno avesse detto al me stesso di allora che, negli anni venti del terzo millennio, in Occidente, la libertà di pensiero e parola sarebbe stata compressa e osteggiata, io l’avrei preso per pazzo. Mi sembrava che fosse al sicuro, garantita dal pluralismo dell’informazione e anche da una istituzione, l’università, alla quale appartenevano persone magari insofferenti verso la libertà del consumatore di scegliere il dentifricio da lui preferito, ma gelose del diritto di esprimere il proprio pensiero.
Sbagliavo (e, probabilmente, anche voi con me).
Le nostre società, con e dopo la pandemia, sono diventate più intolleranti di quanto non siano mai state, perlomeno da dopo la seconda guerra mondiale. L’atteggiamento prevalente nel dibattito pubblico è ormai chiedere che al proprio antagonista si chiuda la bocca: non dimostrare che dice le cose sbagliate, semplicemente sostenere che non deve poterle dire. La discussione è parcellizzata in tanti piccoli gruppi che non solo non desiderano ascoltare le ragioni altrui (quello è normale: siamo esseri umani) ma che si mettono in condizione di non doverlo mai fare. L’impegno politico dei “guerriglieri da tastiera” sui social è precisamente questo: costruire dei muri attorno a sé e ai propri follower, per evitare che vengano esposti a correnti pericolose. Paradossalmente, più è seria la questione (fino alla più seria di tutte: la guerra) e maggiore è lo sforzo per non ascoltare gli altri. Non è sempre stato così. Quand’ero bambino, durante la prima guerra del golfo, nessuno si sentiva offeso quando un giornalista italiano faceva un’intervista a Tareq Aziz, il braccio destro di religione cattolica di Saddam Hussein. Anzi, era considerato uno scoop e apprezzato come tale. A pochi giorni dall’evento più drammatico che chi vive nella nostra parte di mondo ricordi, l’attentato alle Torri gemelle, la stampa ospitava opinioni contrapposte come quelle di Oriana Fallaci e Tiziano Terzani, cercando semmai di alimentare la discussione. Cose, oggi, inimmaginabili.
Questo libro di Flynn è utile sia perché ci ricorda come l’attacco alla libertà di espressione è cominciato nelle università, in particolare le università americane; sia perché è difficile non pensare che forse questo attacco alla libertà di espressione è anche l’esito del fatto che le università non fanno davvero il proprio mestiere.
Se la libertà di parola comprende “quasi qualsiasi cosa che possa essere detta, per quanto ignorante o irritante sia”, l’università deve per forza essere in qualche misura un filtro (ovvero: esercitare una funzione di censura, beninteso all’interno delle aule e non come sempre più spesso accade, nella vita di docenti o studenti fuori di esse) perché parte del suo ruolo è l’upgrade “del dibattito disinformato in dibattito informato”. Intrinseca nel ruolo c’è la tentazione di una scorciatoia: classificare come “disinformata” qualsiasi opinione che studenti o professori non apprezzano o non vogliono ascoltare.
Una buona università bilancia il male che può arrecare facendo da censore in quattro modi. In primo luogo, abituando gli studenti e lo staff a tollerare il libero dibattito per quanto li inquieti. Secondo, costringendoli a confrontarsi con obiezioni alle loro credenze del tipo che non incontrerebbero abitualmente fuori dall’università. Terzo, facendo realizzare loro che tu puoi dire di disporre di conoscenza e non mera opinione solo se sei in grado di difendere le tue convinzioni contro tutte le obiezioni plausibili che possono essere rivolte loro. Quarto, dando agli studenti il genere di conoscenza di competenze intellettuali di cui essi hanno bisogno per essere intelligentemente critici, non solo delle loro stesse idee ma anche delle opinioni convenzionali con cui sono bombardati dai politici e dai media.
Sotto quest’ultimo aspetto, secondo Flynn siamo di fronte a un fallimento epocale. Qualche esempio, fra i dati da lui citati:
dal 1961, “c’è stato un massiccio declino nelle ore a settimana impiegate dagli studenti per studiare”. Secondo uno studio, erano 25 nel 1961, 17 nel 1981, 17 nel 1988 e 15 nel 2003. Nel 2007, 12. “Peggio ancora, solo 8,5 di queste ore sono ore di studio da soli, mentre 3,5 sono ore passate a studiare con altri studenti. Le due cose non sono la stessa: studiare da soli dà benefici, mentre studiare con altri non ne dà”;
“Dal 1983 a oggi, il HPA (Grade Point Average) medio è cresciuto costantemente da 2,83 a 3,13, ovvero da circa B- a B+. Oggi, il voto dato più comunemente è A (la media è abbassata da pochi fallimenti). Le stesse istituzioni d’élite tendono a dare i voti più alti, spesso con la giustificazione che gli studenti devono essere speciali per essere stati ammessi”;
Nel 2011, due studiosi hanno intervistato circa 1000 laureati due anni dopo la laurea. “Solo il 16% discuteva di politica frequentemente, e solo il 33% leggeva un quotidiano ogni giorno, stampato o on line, mentre lo stesso faceva il 25% dei non laureati”;
“Fra il 1981 e il 2005, la percentuale di adulti che legge per diletto (romanzi, racconti, poesie o drammi) è scesa dal 57% al 43%”.
Ora, è evidente che sono cambiate tante cose, in questi anni: dalla discussione politica alle forme di entertaintment e alle loro modalità di fruizione. Ma tutto questo avviene anche nell’epoca storica che vede il maggior numero di alfabetizzati e il maggior numero di laureati di sempre (e i voti più alti di sempre…). Flynn sostiene che l’università non funziona benissimo nel trasferire agli studenti “competenze utili”, di quelle che andranno spese sul posto di posto, e funziona ancor peggio nel farne “persone complete”, in grado di osservare criticamente il mondo nel quale vivono. E questo è vero pure per gli Stati Uniti (dove si impegnano per l’istruzione universitaria più risorse che in qualsiasi altro Paese) e persino per l’élite di quel Paese:
L’America ha almeno una piccola élite che dia consigli ai Presidenti, che faccia funzionare il Dipartimento di Stato, che diriga i media e scriva per essi, e che faccia pesare il suo peso quando la conversazione si avvicina a questioni pubbliche fra docenti universitari, professori di scuola media, dirigenti d’impresa, avvocati, dottori, eccetera? Ricordate quanto potente può essere l’élite dell’opinione pubblica in termini di ciò che una nazione può fare. Nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, era pressoché impossibile trovare una cena nella quale, al tavolo, chi difendeva la schiavitù non finisse sul banco degli imputati. Nonostante la diffusione dell’istruzione terziaria, credo che in America manchi ormai quel genere di élite che è capace di intelligenza critica al di là di ristrette questioni professionali.
Ciò ha a che fare con l’aver “sterilizzato” l’università, averla resa un luogo quanto più possibile impermeabile a idee a vario titolo scomode. E quest’ultima cosa forse ha un po’ a che fare anche con l’aumento della popolazione universitaria e con l’errore concettuale di considerare gli studenti come “clienti” e non invece “prodotti” del sistema. In tutte le cose nelle quali il dialogo fra istituzione universitaria e studenti è quello che potrebbe esserci fra chi vende un servizio e chi lo compra, dalla qualità del wi-fi nei campus a quella delle palestre alla pulizia dei locali, le università di oggi sono molto migliori di quelle che abbiamo conosciuto da studenti. Il guaio è che invece, quando si tratta di quel che deve studiare, non è particolarmente saggio considerare lo studente uno che sa il fatto suo e sa distinguere le idee alle quali deve “essere esposto” da quelle da cui deve essere “protetto”.
Flynn non la fa semplice, comprende bene la delicatezza di temi e questioni che riguardano l’identità delle persone. E gli è chiaro che è veramente difficile immaginare come si possa rimettere il genio nella bottiglia. Ma l’intolleranza nel dibattito pubblico, il conformismo degli intellettuali e la cattiva performance delle università sono temi correlati e sui quali chi ha cuore l’accademia e il suo futuro non dovrebbe smettere di riflettere.
James R. Flynn, A Book Too Risky to Publish: Free Speech and Universities, Washington, DC, Academica Press, 2020, pp. 378
La triste verità è che la libertà di parola, così come altri capisaldi come l'uguaglianza davanti alla legge o l'indipendenza dei media, non è più un valore riconosciuto come fondamentale e come indispensabile per avere una democrazia. Oggi è democratico censurare. Oggi per molti, compresi molti media, democrazia richiede censura della disinformazione, dell'hate speech, del dissenso, dello scetticismo verso le istituzioni, del dibattito scientifico, etc.. i giovani, le università e i media stessi, spesso sono di questa idea..