Donald Trump ha inaugurato la sua seconda presidenza con una serie di executive order. Fra le altre cose, ha ribattezzato la montagna più alta del Nord America Monte McKinley, quale omaggio al suo presidente preferito. Il Denali era conosciuto sotto questo nome dagli anni Settanta, quando in Alaska si era optato per ripristinare la designazione indiana. Nelle battaglie toponomastiche per fortuna non può scorrere il sangue, ma questo non significa che vadano prese alla leggera. La politica, alla fine, è una questione di simboli e poco altro. Trump, che nessuno ha mai accusato di essere portatore di un pensiero politico dai contorni ben definiti, sembra davvero convinto, a dispetto di tutto e di tutti, che i dazi siano imposte che paga chi esporta e non chi importa. William McKinley, il 25mo presidente, eletto dopo il secondo mandato di Grover Cleveland e prima di Theodore Roosevelt, è il predecessore che il 47mo presidente degli Stati Uniti si è preso come riferimento.
Sui giornali si legge di tutto sul protezionismo trumpiano ed è opportuno chiarire almeno due punti.
Il primo è che Trump non rappresenta, dal punto di vista della politica commerciale, una discontinuità col suo predecessore. In molti hanno sottolineato come il libero scambio sia fragile perché risponde a una logica di accordi multilaterali. Gli accordi multilaterali sono lo strumento sviluppato dalla classe dirigente postbellica per assicurare le relazioni economiche fra gli Stati, sulla base di una lezione appresa negli anni Trenta: che, cioè, le cosiddette “guerre commerciali” possono essere lo squillo di tromba che prelude alla guerra vera e propria. Nel 1930, la tariffa Smoot-Hawley, che inaspriva i dazi d’importazione su oltre 20 specialità merceologiche, passò in un contesto nel quale la resistenza dei vecchi interessi liberoscambisti era del tutto disarmata. I maggiori dazi ridussero le importazioni del 60% e provocarono secche reazioni da parte di altri Paesi, nonché un peggioramento delle condizioni di vita delle persone in un momento nel quale già non se la passavano granché bene. Il ricordo di queste circostanze convinse un paziente democratico liberoscambista, Cordell Hull, a diventare negli anni Quaranta il costruttore del nuovo ordine multilaterale.
Detto questo, l’ultimo Presidente americano interessato a rafforzare lo scambio internazionale, rispondendo allo stallo nel quale si trovava già allora l’Organizzazione mondiale del Commercio, è stato George W. Bush. Obama fece poco o nulla per rafforzare la globalizzazione e si convertì alla causa dei (peraltro sfortunati) trattati transatlantico e asiatico solo quando i Repubblicani gli sottrassero il Congresso, per cercare un terreno comune con il “partito del business”.
Trump 1 e Biden hanno rappresentato i megafoni dell’establishment di politica internazionale, che negli Stati Uniti è fortemente anticinese. Biden non ha ridotto le iniziative protezioniste inaugurate dal suo predecessore, anzi ha alzato l’asticella del Buy American - una misura che risale anch’essa agli anni Trenta, la quale fa sì che il governo federale debba acquistare beni che sono “prodotti” negli USA almeno per una certa quota dei fattori produttivi impiegati. Biden ha incrementato quella quota al 75%. La sua ultima decisione di peso è stata fermare l’acquisto di US Steel da parte dei giapponesi.
Regole e accordi multilaterali sono senz’altro un argine contro le tentazioni protezioniste, ma sono un argine debole, soprattutto nel momento in cui fra i politici prevale l’intenzione di politicizzare, appunto, gli scambi: di aprire il rubinetto dei commerci con gli amici e chiuderlo coi nemici. Commerciare significa considerare gli altri non necessariamente “buoni”, ma perlomeno “utili”. Non è detto che ci piacciano ma siamo disponibili a rivolgerci a loro per soddisfare i nostri bisogni. Non dalla benevolenza del macellaio eccetera. Nel momento in cui prevale un giudizio di altro tipo, nel momento in cui scegliamo di considerarli “cattivi”, non c’è sistema di regole che tenga. E’ precisamente questa la dinamica per la quale il protezionismo può lasciar presagire una guerra vera e propria e noi ci siamo entrati alla grande, ben prima che Trump vincesse le elezioni del 2024.
Il secondo punto da chiarire è che un certo grado di protezionismo non è una novità assoluta nella storia americana. Gli USA hanno alcune caratteristiche evidenti (la popolazione e le dimensioni) che consentono loro di sopportare meglio di altri Paesi (più piccoli, meno popolosi e che dunque debbono per forza rivolgersi altrove per ottenere tutta una serie di beni e servizi) i costi del protezionismo. L’ambizione di sostenere il commercio internazionale è relativamente recente: risale al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, come abbiamo già detto. Ma per quanto gli USA siano coevi della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, non sempre ne hanno tenuto presente la lezione.
Il filosofo scozzese provò a spiegare che “nulla può essere più assurdo di questa dottrina della bilancia commerciale (…) Quando due luoghi scambiano tra di loro, questa dottrina suppone che se la bilancia è in pareggio nessuno dei due perde o guadagna; ma se una pende in qualche misura da un lato quello perde e l’altro guadagna (…) Ma il commercio che, senza costrizione, viene naturalmente e regolarmente svolto fra due luoghi qualsiasi, è sempre vantaggioso a entrambi”. Tutti noi abbiamo un deficit di bilancia commerciale con il nostro fruttivendolo o il nostro macellaio: nessuno non ci dorme la notte. La protezione offerta dai politici è sostanzialmente protezione dalla possibilità di beni e servizi a prezzo più basso. In realtà, nella trama complessa di dazi e barriere d’altro tipo, i “protetti” sono molto spesso un gruppo dai confini meglio definiti. Come spiegava Vilfredo Pareto, “un provvedimento protezionista procaccia grossi guadagni a pochi individui, e procaccia a moltissimi consumatori un lieve danno ciascuno”.
La politica doganale americana, racconta Douglas Irwin (il maggiore studioso contemporaneo di questi temi) nel suo mastodontico e bellissimo Clashing over Commerce. A History of US Trade Policy, è stata mossa da tre grandi obiettivi. I tre obiettivi sono le “tre R”: revenues, restriction e reciprocity. Entrate per il governo federale (fino a inizio Novecento,i dazi sostenevano davvero il bilancio pubblico, erano fra le poche imposte che davvero si riuscisse a esigere), restrizione delle importazioni (per sorreggere i produttori nazionali) e infine reciprocità, un’apertura condizionale dei propri mercati per forzare altri Paesi a fare lo stesso aprendo le porte alle aziende Usa. La preoccupazione del primo tipo condiziona il periodo che va dall’Indipendenza alla guerra civile, la volontà di sostenere l’industria nazionale entra nel dibattito fra la vittoria del nordisti e la grande depressione. La questione della “reciprocità” domina la retorica sugli scambi, ma viene utilizzata talora per limitarli, talaltra per ampliarli, in anni a noi più prossimi.
In un territorio vasto come quello statunitense,
le diverse parti del paese si specializzano in differenti attività economiche, che possono rimanere nella medesima località per decenni, se non per secoli. Per più di duecento anni il cotone è stato prodotto nel Mississippi, il tabacco nel Kentucky e in North Carolina, l’acciaio in Pennsylvania e così via.
I governi possono provare a condizionare gli scambi commerciali tassando o sussidiando le esportazioni, tassando o sussidiando le importazioni. La Costituzione americana proibisce esplicitamente le tasse sulle esportazioni e, per ovvi motivi, è raro che gli Stati sussidino le importazioni. La storia che Irwin racconta ha dunque a che fare con sussidi alle esportazioni e tasse sulle importazioni, variamente utilizzati, gli uni e le altre, per far pendere il piatto di quella bilancia che tanto irritava Adam Smith.
Per generalizzare, i produttori che devono affrontare la concorrenza dall’estero desiderano dazi elevati, mentre i produttori che esportano verso mercati stranieri vogliono dazi più bassi sulle importazioni.
James Madison aveva dedicato il decimo articolo del Federalist alle fazioni, alla difficoltà di conciliare “gli interessi dei proprietari agrari, quelli degli industriali, dei commercianti, dei possessori di capitali liquidi”. Egli prevedeva che la forza degli interessi sarebbe andata crescendo con l’andar del tempo. E così è stato.
Veniamo a McKinley.
Dopo la guerra fra Nord e Sud, i Repubblicani ebbero un filotto di Presidenti, interrotto soltanto dall’elezione di Grover Cleveland nel 1885. La frattura protezionisti/liberoscambisti ricalca in larga misura la geografia. La principale esportazione americana era appunto il cotone e gli Stati del Sud del Paese erano sostanzialmente liberoscambisti e lieti di importare manufatti a minor prezzo. La manifattura era ovviamente pluriforme e dispersa nel Nord del Paese, il quale costituiva un blocco protezionista abbastanza solido. Il MidWest aveva una posizione intermedia: alcune categorie di produttori (barbabietola da zucchero e lana) erano moderatamente protezionisti, altri (granaglie e carne) avevano un “moderato interesse” all’esportazione verso altri mercati. Per quanto gli Stati Uniti fossero per l’epoca un Paese nel quale i salari erano alti, il reddito delle famiglie finiva per il 40% in spesa alimentare. I beni alimentari contavano per circa le metà delle esportazioni. Al contrario per beni importati e gravati da dazi, come i vestiti, le famiglie spendevano fra il 15 e il 20% del loro reddito.
I Repubblicani cercavano di costruire coalizioni protezioniste, allettando, per così dire, con dazi d’importazione anche gli agricoltori. Ma siccome costoro esportavano più che importare, si trattava di un gioco di simboli: l’ambizione era non farli sentire meno “uguali” degli altri. Gli argomenti a favore dei dazi non erano poi troppo diversi da quelli che sentiamo oggigiorno. Il futuro Presidente McKinley ripeteva continuamente che la vittima di un regime liberoscambista sarebbero stati i lavoratori. Le organizzazioni di questi ultimi erano solo in parte persuase dall’argomento: in molti temevano l’effetto che la presunta “protezione” avrebbe avuto sul loro reddito disponibile. I Repubblicani issavano la bandiera dell’orgoglio nazionale (“protezionismo è un altro modo per dire patriottismo”) e accusavano i liberoscambisti, e i Democratici, di essere in realtà degli “agenti stranieri” al soldo non della Cina o della Russia, ma dell’Inghilterra. L’anglofobia andava forte nel dibattito statunitense di allora e il libero scambio, per quanto imperfetto, era stato, dal 1848, la politica commerciale più o meno ufficiale dell’Impero Britannico. La riduzione dei dazi commerciali era considerata una perfida strategia per consegnare i consumatori americani nelle mani di terribili monopolisti stranieri.
Qualcuno, come il parlamentare dell’Oregon Binger Herman, sosteneva addirittura che il protezionismo servisse ad abbassare i prezzi. Perché “la protezione genera produzione, la produzione genera concorrenza e la concorrenza genera prezzi bassi”. L’economia americana fra gli anni Sessanta e la fine dell’Ottocento conosce una straordinaria espansione e prezzi in deflazione grazie all’innovazione tecnologica. Fra il 1870 e il 1913, il prodotto aumentava di circa il 4% l’anno (nell’Inghilterra che pure era arrivata per prima alla Rivoluzione industriale, del 2%). La ragione primaria era la crescita della popolazione: dal 1870 al 1913, la popolazione americana passò da 40 a 97 milioni.
Ciò avveniva a fronte di un certo grado di protezionismo, peraltro sorprendentemente stabile. Fra il 1860 e il 1900, la tariffa media su beni sottoposti a dazio era del 40-45%. Non scese mai sotto il 38%, né andò mai oltre il 50%. Non tutti i beni erano sottoposti a dazio: grossomodo non lo era un terzo dei beni scambiati, non lo erano tè e caffè e, con la famosa “tariffa McKinley”, non lo fu più lo zucchero. Questa scelta era motivata dalla necessità di ridurre il pesante avanzo del bilancio federale. Il debito era lievitato con la guerra ma quelli erano ancora tempi nei quali le nuove spese (in questo caso, le spese militari) non necessariamente diventavano permanenti: e quindi per gli anni Settanta e Ottanta del secolo il governo federale ebbe avanzi di bilancio assai rilevanti, che tutte le forze politiche volevano tagliare, nella convinzione che lo Stato non dovesse approfittarsi dei suoi cittadini. Convinzione comune, ma metodi diversi. I Democratici propendevano per la riduzione dei dazi, i Repubblicani per l’aumento della spesa a fini non-militari.
Se il principale motore della crescita era la crescita demografica, è improbabile che i dazi abbiano avuto su di essa un’influenza positiva. Trump escluso, è difficile trovare qualcuno pronto a sostenere che la politica doganale americana sia all’origine del successo americano. E’ anche improbabile che i dazi siano serviti da “politica industriale”: a differenza di quanto avveniva in altri Paesi, gli americani non fingevano che il protezionismo fosse a tutela delle “infant industry" e il grosso della loro base industriale, che seppe conquistare per sé protezioni di vario tipo, era già se non adulta più che adolescente negli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando le barriere erano minori. Il protezionismo statunitense comunque andava per categorie merceologiche, non per tipologie di settori da “sostenere”. Fra l’altro, in molti casi i dazi erano relativamente più elevati sui beni intermedi che sui prodotti finiti, il che suggerisce che facessero più male che bene a molte manifatture.
Per la verità, spiega Irwin, è pure difficile sostenere che il protezionismo abbia avuto un effetto straordinariamente negativo sull’America di quegli anni. Paese che aveva una grande estensione territoriale, traboccante di opportunità, a disposizione di una popolazione ancora modesta ma in crescita, la quale godeva di grande libertà di realizzare nuovi progetti e nuove imprese.
A crescere assieme al protezionismo furono senz’altro i gruppi d’interesse organizzati. La stessa parola “lobby” divenne d’uso comune perché il Presidente Grant chiamava così i questuanti che lo attendevano nella lobby, appunto, dell’hotel Willard. Per carità, rapporti fra Parlamento, governo e gruppi d’interesse ci sono sempre stati. In precedenza però, capitava che un politico ricevesse una petizione dai suoi elettori ma non esisteva una vera e propria “industria” del chieder sostegni. Con la guerra, il governo diventa un acquirente di tutto quel che serve, appunto, a far la guerra, comincia a finanziare anche qualche progetto “scientifico” (con in testa, ovviamente, l’obiettivo di vincere sul campo di battaglia), insomma lo Stato americano prende una forma più simile a quella che avrà nel Novecento. Il suo complesso scientifico-militare-industriale deve molto a chi seduce i politici a intraprendere questa o quella spesa.
McKinley “firma” la riforma tariffaria che porta il suo nome nel 1890, quando è ancora parlamentare. Non gli porta benissimo: perde il seggio alle elezioni successive (rientrerà in gioco come governatore dell’Ohio, si candiderà Presidente nel 1897). Abolisce il dazio sullo zucchero, come detto per ridurre il surplus del governo federale (allo stesso scopo, viene triplicata la spesa per le pensioni dei veterani), ma alza il dazio medio del 4%. La misura passa all’interno di un gioco parlamentare orchestrato dal senatore John Sherman, che porta lo Stato ad acquistare 4,5 milioni di once di argento al mese, per sostenerne il prezzo. Gli USA erano ancora nella fase di transizione dal sistema bimetallico al gold standard, il che spiega le forti pressioni per una mossa del genere. Nel 1878, la legge Bland-Allison aveva consentito al Tesoro di coniare monete d'argento e di emettere buoni del tesoro garanti dall’argento.
Con lo Sherman Silver Act, le persone vendevano argento allo Stato convertendolo in oro, il che andò a svuotare progressivamente le riserve federali. Queste ultime toccano il fondo, il neo-rieletto Grover Cleveland (l’unico, prima di Trump, a fare due mandati non consecutivi) convoca una sessione speciale del Congresso, chiedendo l’eliminazione delle precedenti leggi sull'argento per fermare il prosciugamento delle riserve auree statunitensi. L'abrogazione avvenne, consentendo un aggiustamento, doloroso quanto necessario.
Cleveland, che era tendenzialmente liberoscambista, dovette sacrificare le proprie ambizioni di riforma alla necessità di fronteggiare la crisi. Durante la sua amministrazione viene varata la legge tariffaria Wilson-Gorman, che riduce i dazi ma non in modo sufficientemente adeguato per il Presidente: che non la firma. Intanto, l’azione di Cleveland e l’aggiustamento che ne è seguito (ogni tanto le terapie sono dolorose anch’esse) mette vento nelle vele dei “filo-argento” (cioè filo-debitori e anti-creditori) del suo Partito, che dopo di lui candida William J. Bryan. Sconfitto da McKinley, protezionista ma sostenitore dello standard aureo.
Tutto per questo per dire che la politica è sempre un po’ più complicata delle sintesi dei giornalisti e dei demagoghi.
E ora, con Trump? Negli ultimi anni è andato aumentando il peso delle barriere non tariffarie: l’uso della regolamentazione a fini protezionistici indebolisce, ovunque nel mondo, la fiducia negli accordi multilaterali. A questo protezionismo di fatto, cresciuto all’ombra di quegli accordi multilaterali di cui Trump ci ha fatto tardivamente scoprire l’importanza, il nuovo Presidente aggiunge la questione dei dazi. Che sembravano obsoleti come strumento protezionista, e che andranno a sommarsi ad altre forme di “protezione” più aggiornate ai tempi.
L’America di Trump è diversa da quella di McKinley, è infinitamente più integrata nell’economia internazionale, le ripercussioni delle sue scelte possono essere molto maggiori (all’epoca, però, pure il McKinley Act suscitò risposte protezioniste in altri Paesi). Purtroppo le controparti di Trump, specialmente nel nostro sciagurato continente, non sembrano capire il commercio molto meglio di lui, ragionano in termini di ritorsioni e soprattutto ormai concepiscono lo scambio internazionale come una sorta di rapporto privilegiato fra Paesi amici e non come quel che è: cioè un vendere e comprare mosso dalla logica delle convenienze economiche, non da altro. Il massimo che i liberisti possono far oggi è probabilmente cercare di evitare la confusione delle idee che nasce da quella delle parole. Come ci insegnavano i grandi economisti italiani dell’Ottocento, non andrebbe chiamato “protezionismo”, perché l’effetto non è quello di proteggere altri che piccoli gruppi. Ma “vincolismo”, perché ciò che fa è limitare le libere scelte di ciascuno.
Douglas A. Irwin, Clashing over Commerce: A History of US Trade Policy, Chicago, University of Chicago Press, 2019, pp. 860.
Battaglia persa, Corn Laws&Importation Act a parte. Di fronte alla "perdita di controllo" dell'approvvigionamento del pane che viene impastato con la farina coltivata nel campo dietro casa (ovviamente tutto falso, ma...) è difficile se non impossibile che noi uomini della strada crediamo ai vantaggi del libero commercio internazionale. Peraltro, nel caso di specie (USA vs Cina) l'uso "assertivo" (=politico) del commercio da parte della Cina è talmente evidente che qualsiasi considerazione economica o "razionale" passa per forza in secondo piano