Come molti, pensavo che Trump, dovendo contrapporsi al ticket Biden-Harris, scegliesse per vicepresidente una donna o un uomo di colore: insomma un rappresentante di una minoranza. Mai avrei immaginato, però, che avrebbe pescato il suo vice nella minoranza più marginale e vilipesa di tutte: gli scrittori di destra. L’investitura di J.D. Vance è stata abbondantemente commentata dai giornali. Dal punto di vista politico, non è per niente una decisione ovvia: Vance non “porta” il consenso di stati che sono in bilico fra Democratici e Repubblicani, come avrebbe fatto, per esempio, il governatore della Virginia Glenn Youngkin. Non è neppure, com’era Mike Pence, un altro ex governatore, un “executive” della politica in grado di sgravare il futuro inquilino della Casa Bianca, ben noto per non essere uno stakanovista, da tutta una serie di seccature. Qualcuno ha sostenuto che Trump volesse consolidare la presa sul partito: Vance è un ex “Never Trumper” avvicinatosi poi all’ala protezionista e, se proprio dobbiamo usare per l’ennesima volta questa parola talmente inflazionata da non significare più nulla, “populista” del Grand Old Party. L’ex Presidente avrebbe pertanto pensato soprattutto alla sua eredità, indicando sin d’ora come probabile successore una figura a lui ideologicamente allineata, per quanto senza un curriculum che lo renda particolarmente adeguato per la vicepresidenza. La tesi sarebbe persuasiva, se non stessimo parlando di Trump. Ovvero di un uomo che con la coerenza ha, nella migliore delle ipotesi, una “relazione aperta”. E che è invece noto per disfarsi dei collaboratori senza troppi scrupoli.
Evitando di avventurarmi in interpretazioni acrobatiche, azzardo che forse la scelta è ricaduta su Vance solo in parte per le professioni di lealtà in cui questi si è esibito negli scorsi anni. Per quanto chiacchierate siano le sue vicende d’imprenditore, Trump ha, da arciamericano, il mito del successo. E Vance, trentanovenne che proviene da una famiglia povera dell’Ohio, è stato coi Marines in Iraq, si è laureato in legge a Yale, ha scritto un best seller diventato un (bel) film di Ron Howard, ha fatto quattrini sotto l’ala di Peter Thiel e poi è diventato senatore, è indubbiamente un uomo di successo. Se i Repubblicani vincessero le elezioni, Vance rappresenterebbe in un certo senso un ritorno al passato: fino a Obama (ovviamente, incluso), presidenti e vicepresidenti, di diverse convinzioni, hanno quasi sempre incarnato una “bella storia”. La sua lo è e su questo non c’è dubbio.
Vance ha pubblicato Hillbilly Elegy nel 2016, tre anni dopo la laurea a Yale e sette prima di diventare senatore. In italiano il titolo è Elegia americana, che non rende. Hillbilly sono non solo i “provinciali”, ma proprio i “campagnoli”, della regione degli Appalachi. Vance è vissuto a Middletown, Ohio, ma il suo posto del cuore è Jackson, Kentucky. Di lì veniva la famiglia della madre. Che si era spostata in Ohio un po’ perché la nonna e il nonno hanno dovuto far fagotto e scappare quando lei era rimasta incinta, a tredici anni. E un po’ perché nella “cintura della ruggine” a Middletown c’era l’Armco, industria siderurgica e calamita di lavoratori da tutta la regione. Essa è “sinonimo di benessere: il motore economico” che aveva portato una generazione dalle colline del Kentucky alla “classe media americana”, che significa pure pensare che tutto debbano fare i figli, tranne il medesimo mestiere dei genitori.
L’Armco a un certo punto viene acquistata dalla Kawasaki. Eccolo, il declino americano. Se ci si ferma a questa prima, rozza descrizione della cornice in cui si inseriscono le vicende dei Vance, viene relativamente facile comprendere le posizioni che oggi J.D. fa proprie: dazi, “buy American” (nulla di nuovo: nel bene e nel male, lo stesso hanno fatto Obama prima e Biden dopo Trump), smetteremo di corteggiare Wall Street e penseremo a Main Street. Su Facebook, ho letto un commento che afferma che il libro di Vance (o perlomeno il film che ne è tratto) suggerirebbe che “le diseguaglianze non curate portano alla sconfitta delle democrazie occidentali”. Il sottinteso, mi sembra, è il solito: se crescono i divari, è colpa di dinamiche essenzialmente “economiche”, che possono trovare la loro soluzione in aiuti diretti (sussidi o servizi erogati dallo Stato alle famiglie) o indiretti (sussidiamo, anziché le persone, le acciaierie di questo mondo perché non chiudano mai). Questa è la strada che le élites occidentali hanno preso negli ultimi anni: sterilizzare il mercato per salvare la democrazia. Convintesi che la globalizzazione avrebbe sì messo il pane in tavola al contadino cinese, ma anche aumentato sproporzionatamente la quota del reddito nazionale nei Paesi ricchi che finisce nelle tasche del “top 1 per cento” a scapito degli altri, hanno adottato un mix di politiche volte sia a salvaguardare gli interessi degli amici (è comparso, da qualche parte, nelle nostre Costituzioni un articolo che impedisce che i mercati azionari possano avere, come hanno sempre avuto, momenti di bust) che gettare brioche al popolo (bue). Si sono inventati “ristori” sempre nuovi, hanno ipotizzato filiere corte e reshoring per rimpatriare le produzioni scappate altrove, stanno affilando la sciabola dei dazi.
Sbaglierò io, ma l’autobiografia di Vance mi sembra utile precisamente per capire che cosa non va in tutto questo. A un certo punto, scrive che “i politici cercano di aiutare le persone come me senza sapere come vivono le persone come me”. Con “persone come me” non si riferiva ai senatori under40, ma ai ragazzi che vengono da famiglie difficili, rocambolescamente arrivati all’università.
Hillbilly Elegy è scritta da uno che ce l’ha fatta e che, un po’ per parte di moglie (figlia di un immigrato indiano di successo) e un po’ grazie alla laurea in legge a Yale, è entrato in un milieu completamente diverso da quello d’origine. “Come dice il vecchio adagio, meglio essere fortunati che bravi. Evidentemente, far parte del network giusto è la cosa migliore in assoluto”. Del suo mondo di arrivo, paragonato a quello di partenza, egli coglie “diseguaglianze” che hanno a che fare meno coi quattrini e più coi comportamenti. I ricchi sono diversi da noi, pare abbia detto Scott Fitzgerald a Hemingway. Sì, hanno più soldi, gli rispose quest’ultimo. Secondo Vance, altre cose contano ben di più del denaro. I poveri sono più ossessionati dal fare un bel regalo di Natale costoso di quanto non lo siano i ricchi. Fra i quali, vige invece la regola di un certo understatement (perlomeno, natalizio). Ma in quelle case, madri e padri litigano di meno, o non lo fanno davanti alla prole; ai ragazzi capita di vedere i propri genitori che leggono, di sentirli discutere dell’ultimo concerto al quale sono stati; le loro abitudini sono più salubri, anche se come sport praticano la corsa (che costa un paio di scarpe da ginnastica e nient’altro) e non giocano a golf. Quando qualcosa del genere incrocia la vita di un ragazzino povero, suggerisce Vance, le probabilità che ce la faccia crescono non poco. Il guaio è che i ricchi sono i primi a non rendersene conto, a sbagliare la contabilità della propria fortuna.
Al centro del racconto di Vance non ci sono i poveri in generale, ma dei poveri ben precisi. Poveri di cui è stato facile dimenticarsi, negli Stati Uniti, perché sono bianchi. Dovrebbero, pertanto, galleggiare nel privilegio.
Sono gli hillbilly. Pensate a Dinamite Bla (Hard Maid Moe), il personaggio di Topolino cui è stata assegnata la parte del bifolco sociopatico, che scaccia i ficcanaso col suo archibugio caricato a sale. Bonnie Blanton Vance, l’eroina di Hillbilly Elegy, la nonna di J.D., gli assomiglia. Anche nel suo discorso alla convention repubblicana, il senatore dell’Ohio ha ricordato che nonna teneva in casa diciannove pistole cariche (19). Aveva un bel caratterino. Limitiamoci a un esempio. Il giovane J.D. era legatissimo al nonno (la morte del quale fa scattare le pulsioni autodistruttive della figlia) e non riusciva a credere “che il mite nonnino, che adoravo da bambino, fosse un ubriacone della peggior specie”. Alla moglie, certi comportamenti proprio non andavano giù.
Dopo una notte particolarmente alcolica, la nonna disse al nonno che, se fosse rientrato un’altra volta in quello stato, lei lo avrebbe ucciso. Una settimana dopo lui tornò a casa ancora ubriaco e si mise a dormire sul divano. La nonna, che manteneva sempre le promesse, andò a prendere con tutta calma una tanichetta di benzina in garage, la versò sul corpo del marito, accese un fiammifero e glielo gettò sul torace. Quando il nonno fu avvolto dalle fiamme, la figlia undicenne entrò in azione per spegnere l’incendio e salvargli la vita. Miracolosamente, il nonno se la cavò con qualche scottatura. Essendo gente di montagna, dovevamo continuare a vivere due vite parallele. Nessun estraneo doveva sapere di quelle liti furibonde.
Avete capito il tipo. Bonnie Blanton Vance amava i bambini e avrebbe voluto dedicarsi a loro toto corde, non aveva una grande istruzione, non fu una educatrice montessoriana. Stracciava il nipote a carte e poteva chiamarlo affettuosamente stronzo o figlio di puttana.
Sua figlia, la madre di J.D., cambiava frequentemente compagno, scegliendo tipicamente surrogati di padre non proprio ideali per J.D. e la sorella Lindsay. Per anni si trascina da una dipendenza all’altra, ben più gravi dell’alcolismo paterno. Nel film di Ron Howard, Amy Adams è strepitosamente brava nel farne una maschera di disperazione. Una volta, J.D. era bambino,
Eravamo sulla superstrada, e ho detto qualcosa che l’ha mandata su tutte le furie. Allora si è messa a correre a centocinquanta all’ora, annunciando che sarebbe andata schiantarsi per farla finita una volta per tutte. Io sono balzato sul sedile posteriore, pensando che se avessi potuto mettermi due cinture di sicurezza avrei avuto maggiori probabilità di sopravvivere all’impatto. Sempre più arrabbiata, ha accostato per riempirmi di botte, ma io sono scivolato fuori dalla macchina e sono corso via per mettermi in salvo.
Nel momento del bisogno, chiama la nonna. “Mi spiace ancora oggi che troppi compagni di scuola e troppi conoscenti non abbiano mai saputo che la nonna è stata il dono più grande che abbia mai ricevuto”. La nonna lo accoglie in casa per sottrarlo all’ennesimo, imminente naufragio sentimentale di mamma. J.D. all’epoca frequentava amici poco raccomandabili: paradossalmente, proprio quando la madre si era messa col suo capo, il miglior partito incrociato in qualche lustro e dunque sposato in quattro e quattr’otto.
Alle superiori Vance ha la fortuna di incontrare un professore straordinario. Per dire il tipo: un giorno a scuola uno studente millanta di aver messo una bomba nel suo armadietto. Compiuto il rito dell’evacuazione, il professor Selby con tutta calma rientra nell’edificio da solo, apre l’armadietto e getta con noncuranza il gingillo in una cestino della spazzatura: è stato mio alunno, lo conosco, non era sveglio a sufficienza per mettere assieme una bomba in grado di scoppiare. Selby invitava
i suoi allievi a procurarsi calcolatrici dotate di una funzione grafica - il massimo era il modello 89 di Texas Instruments. Non avevamo il cellulare e non eravamo vestiti bene, ma la nonna ha voluto a tutti i costi che ne avessi una anch’io. In questo modo mi ha impartito una lezione importante sui suoi valori, e mi ha spinto a impegnarmi negli studi come non avevo mai fatto prima. Se la nonna arrivava a tirar fuori 180 dollari per una calcolatrice grafica avrei fatto meglio a prendere più sul serio la scuola.
Hillbilly Elegy non è un rosario di recriminazioni. Vance vede del buono nelle circostanze in cui è cresciuto, riconosce a quella scapestrata della madre il merito di avergli instillato il gusto della lettura, racconta il “codice inespresso appalachiano” come un impasto valori cui non manca un certo ruvido buon senso:
Nell’Ohio sudoccidentale della mia giovinezza, ci veniva insegnato ad apprezzare la lealtà, l’onore e la durezza. Mi hanno fatto sanguinare per la prima volta il naso a cinque anni e mi hanno regalato il primo occhio nero a sei. In entrambi i casi, lo scontro era iniziato perché qualcuno aveva insultato mia madre. Le battute sulla mamma non erano ammesse, e quelle sulla nonna si meritavano la punizione più severa che potevano somministrare i miei piccoli pugni. Il nonno e la nonna hanno voluto che familiarizzassi con le regole di base della lotta: non attaccare mai per primo, metti sempre fine allo scontro se è qualcun altro a iniziarlo; e anche se sei un tipo pacifico, puoi menare le mani se qualcuno insulta la tua famiglia.
Nel suo (bellissimo) commencement speech alla New York University, un personaggio il più lontano da J.D. Vance, Taylor Swift, ha incitato gli studenti a un atto d’affetto nei confronti delle loro famiglie:
Ciascuno di noi è una trapunta patchwork tessuta dalle persone che ci hanno amato, che hanno creduto nel nostro potenziale, che ci hanno mostrato empatia e gentilezza o che ci hanno detto la verità anche quando non era facile sentirla. Chi ci ha detto che potevamo farcela quando non c'era assolutamente nessun indizio. Qualcuno vi ha letto delle storie, vi ha insegnato a sognare e vi ha offerto un codice morale spiegandovi ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per cercare di stare al mondo. Qualcuno ha fatto del suo meglio per spiegare ogni concetto di questo mondo follemente complesso al bambino che eri, mentre tu facevi un miliardo di domande come “come funziona la luna” e “perché possiamo mangiare l'insalata ma non l'erba”. E forse non ci sono riusciti perfettamente. Nessuno ci riesce mai. Forse non sono più tra noi, e in questo caso spero che li ricorderete oggi. Se sono qui in questo stadio, spero che troverete il vostro modo di esprimere la vostra gratitudine per tutti i passi e gli errori che ci hanno portato a questa destinazione comune.
Vance non fa della sua famiglia un “caso” per una ricerca sociologica. La racconta con tutti i suoi difetti e con tutti i suoi limiti, cerca di trarne ammaestramenti con più vasta portata, ogni tanto riesce a dirle grazie. Riflettendo sui “valori appalachiani” della sua infanzia, l’ormai avvocato Vance scrive:
Ho scoperto che le stesse caratteristiche che mi hanno permesso di sopravvivere nell’infanzia rendono più difficile il mio successo nella vita adulta. Se vedo un conflitto, fuggo o mi preparo alla battaglia. Ha poco senso nelle mie relazioni attuali ma, se non avessi avuto quest’atteggiamento, non so come sarebbe andata a finire. Ho imparato presto a nascondere in giro i miei soldi per paura che la mamma o qualcun altro li trovasse e li «prendesse i prestito». (…) Quando io e Usha abbiamo consolidato le nostre finanze, lei non voleva credere che io avessi più conti correnti e piccoli debiti insoluti sulle carte di credito. A volte mi ricorda ancora che non tutti i torti percepiti - da parte di un automobilista che mi taglia la strada o di un vicino di casa che critica i miei cani - possono giustificare una faida sanguinosa. E io riconosco sempre, nonostante le mie incazzature, che probabilmente ha ragione.
L’incomunicabilità fra élites e popolo, fra establishment e non-establishment, fra ricchi e poveri si basa su una discrasia di “codici” che sono adatti a condizioni diverse? Il Vance scrittore non salvava le élites più di quanto non faccia il Vance politico. “Io sono il patriota di cui si fanno beffe gli uomini d’affari che viaggiano in prima classe fra Boston e New York”, che si commuove ascoltando l’inno e al quale la nonna e il nonno hanno insegnato “che viviamo nel paese migliore del mondo. Questa certezza ha dato significato alla mia infanzia”. Figurarsi che ne pensa degli americani delle coste, convintissimi che l’America debba somigliare quanto più possibile all’Europa.
Dei problemi degli hillbilly, che pure ai suoi occhi restano “la razza più tosta del pianeta”, il Vance scrittore non incolpa la classe politica, se non per una certa sordità rispetto a un modo di vivere diverso, al quale non viene riconosciuta cittadinanza. “Non so quale sia esattamente la risposta, ma so che cominceremo ad averla quando smetteremo di dare la colpa a Obama o a Bush o alle grandi aziende e ci chiederemo cosa possiamo fare per migliorare la situazione”.
In particolare, Vance mette in prospettiva ogni scorciatoia economicista, per ricordarci che “dietro le droghe, le risse familiari e le difficoltà finanziarie, c’erano persone che avevano grossi problemi e stavano male”. Perché sua madre non si accorge di stare rovinando la famiglia, overdose dopo overdose, danneggiando dei figli che pure adora? Perché la vicina di casa maltrattata dal marito non lo lascia? Perché i ragazzi che crescono sentendosi ripetere continuamente che lo studio è la strada per l’emancipazione, poi non aprono un libro? “La nostra elegia è sociologica, ma concerne anche la psicologia, la comunità, la cultura e la fede”.
Il mondo degli hillbilly marginalizzati è
dominato da un comportamento totalmente irrazionale. Spendiamo tutto per poi finire all’ospizio dei poveri. Compriamo televisori giganteschi e iPad. I nostri figli indossano capi di lusso grazie alle carte di credito che applicano interessi stratosferici e ai prestiti garantiti dallo stipendio. Compriamo case di cui non abbiamo bisogno, le rifinanziamo per poter spendere altri soldi e andiamo in fallimento, lasciandole spesso piene di robaccia. Non sappiamo cosa sia la parsimonia. Spendiamo per far finta di appartenere alla classe superiore. E alla resa dei conti non rimane più nulla.
Come è evidente in questa lista, per il Vance scrittore non era avere quattrini il problema immediato di quello che ogni tanto viene chiamato il proletariato bianco: anzi era circondato da gente che riceveva assegni, percepiti come un pasto gratis e subito spesi senza costrutto. Vance sa di avere a che fare con un fenomeno complesso e multi-causale. Ma se dal suo libro emerge una questione che sovrasta tutte le altre, è una crisi dei valori “tradizionali” dovuta in larga misura al disgregarsi delle comunità religiose. In Ohio si cantano le virtù del duro lavoro, poi ci si licenzia perché il capo chiede di fare gli straordinari, e si accusano le politiche di Obama di averci fatto perdere il posto. Si dice Gesù una volta ogni due minuti, si esibisce una religiosità fra il bigotto e il superstizioso, ma non si va più né a messa né a catechismo, perdendo l’aspetto comunitario, il network per dirlo con parole nostre, della vita religiosa.
Anche per questo, spiega Vance, in America “i poveri sono destinati a rimanere poveri nel Sud, nella Rust Belt e negli Appalachi” ma “in posti come lo Utah, l’Oklahoma e il Massachusetts” l’ascensore sociale funziona benissimo. La causa non è qualche “bug” dell’ordine spontaneo del mercato ma sono problemi culturali legati, in parte almeno, a scelte politiche e in particolare modo
la prevalenza di genitori single e la segregazione dei redditi. Crescere circondati da madri e padri single, e vivere in un posto in cui quasi tutti i tuoi vicini di casa sono poveri riduce significativamente le tue possibilità. Vuol dire che se non hai una nonna e un nonno che ti tengono in riga, rischi di non farcela mai. Vuol dire che non hai persone in grado di mostrarti con l’esempio cosa succede quando lavori sodo e ti conquisti un titolo di studio. (…) Perciò non mi stupisce affatto che lo Utah mormone, con la sua chiesa onnipresente, con le sue comunità integrate e con le sue famiglie protettive offra molte più opportunità della Rust Belt e dell’Ohio.
Questa analisi credo sia la più sgradita alle orecchie degli ingegneri sociali. Si tirano in ballo non solo la religione e le credenze diffuse, ma persino fattori imponderabili, come la fortuna di avere una nonna. Aumentare i fondi per l’istruzione? Moltiplicare le borse di studio? Accrescere le risorse messe a bilancio per l’assistenza? Quanto è più facile, più rassicurante, pensare un mondo dove la società si mette in sicurezza girando le manopole di qualche spesa, rispetto a uno nel quale la trama sottile dei valori riverbera nel successo o nel fallimento di una generazione.
La risposta individuale di Vance è stata entrare nei marine e apprendere a quella scuola la responsabilità e la disciplina. Come immaginare una risposta collettiva che abbia un effetto simile è una sfida e per ora un mistero, ma certo non lo si fa attingendo alla cassetta degli attrezzi del pianificatore sociale.
Affacciatosi alla politica, Vance ha cambiato idea. L’osceno grande fratello privato del suo mentore Peter Thiel si chiama Palantir. Per rimanere nella stessa cornice simbolica, potremmo dire che Vance ora propende per la “strategia Boromir”: siamo in pericolo e abbiamo a disposizione un’arma potente, l’anello del potere. Usiamolo. Di qui la sua critica ai libertari, imbelli che rifiutano di ricorrere a strumenti coercitivi per fare il bene. Sul Vance politico capiremo cosa possiamo dire, dopo l’appuntamento di novembre. Di Hillbilly Elegy mi sentirei di dire che va letto, che dovrebbero leggerlo soprattutto coloro che parlano di diseguaglianze a ogni pie’ sospinto. Non mi stupirei se fra cinquant’anni questo libro fosse considerato un classico, diversissimo ma altrettanto importante dei lavori di Edward Banfield, Robert Putnam e Charles Murray.
J.D. Vance, Elegia americana (2013), Milano, Garzanti, 2020, pp. 272.
Leggo sempre volentieri i suoi interventi, dai quali imparo sempre qualcosa, ma per questo la ringrazio particolarmente; abbiamo bisogno di gente come lei che cerca di fare chiarezza in questo mondo complicato.
Letto qualche anno fa, lo sto rileggendo. Una strana mescolanza di richiami allo spirito di Tom Sawyer e Huck Finn e nello stesso tempo al potere della politica del tutto "nuovo" nella storia americana. Non che l'America non pratichi il Big Government (almeno tanto quanto il Big Business), però mi pare distante sia dai due Roosevelt che da Eisenhower, per non parlare di Reagan. Speriamo che non sia un nuovo Huey Long