Oggi, centocinquant’anni fa, nasceva Luigi Einaudi. Non mancano iniziative diverse per alimentarne il ricordo, la gran parte in capo a due comitati nazionali. L’Istituto Bruno Leoni ha inaugurato una serie di Podcast che raccontano in maniera sintetica alcuni dei più famosi articoli di Einaudi e si è inventato un'iniziativa stravagante. Per molti anni, capitava che chi entrasse in una bottega o in un negozio trovasse appesa alla parete una frase-manifesto:
Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.
E’ la dedica che Einaudi fece all'impresa dei Fratelli Guerrino di Dogliani, l’Istituto ne ha fatto non un poster ma un quadretto in plexiglas, chi abbia un’attività può richiederlo gratuitamente - o meglio, dal momento che non esistono pasti gratis, al modico prezzo di farsi immortale col quadretto a favore di Instagram.
L’opera di Einaudi è sterminata, cominciò a scrivere da ragazzo, pubblicando il suo primo articolo a diciannove anni sulla Gazzetta di Dogliani che era stata fondata dallo zio Francesco Fracchia. Negli scritti einaudiani si trova di tutto e infatti anche in questi giorni si gioca a estrarre dal cilindro l’Einaudi che (se non lo conosci) non ti aspetti, il liberista “critico”, il cantore della bellezza della lotta, l’estimatore del socialismo (inteso come movimento, non come tentativo dirigistico di organizzare la produzione), l’ammiratore della primissima politica economica del fascismo ovvero del ministro Alberto De’ Stefani che svolse il suo incarico “con amore del pubblico bene, ferma difesa dell’erario, volontà di ritorno alle tradizioni antiche di palazzo Quintino Sella”, eccetera.
Si tratta in realtà di cose più che note non necessariamente all’esperto del pensiero di Einaudi, ma a chi nel corso degli anni lo ha un po’ frequentato. Nel corso di una vita lunga (87 anni, morì nell’autunno del 1961), durante la quale assistette non solo a due guerre mondiali ma anche alla nascita della Banca d’Italia e della Federal Reserve, ai primi collegamenti telefonici interurbani e all’affermarsi delle cabine telefoniche, all’elettrificazione del Paese e alla trasformazione dell’automobile in un bene di largo consumo, Einaudi reagì, come tutti, al dispiegarsi degli eventi.
Solo un’osservazione sul fascismo. Einaudi approvò la parte finanziaria e disapprovò la linea politica del primissimo Mussolini, poi, con l’avvicendamento fra De’ Stefani e Volpi, disapprovò anche quella economica. Ai tempi del delitto Matteotti biasimò il silenzio dei “capitani d’industria”. Fu costretto a lasciare, con Luigi Albertini, la tribuna del Corriere, dove aveva inventato la figura dell’economista-editorialista. Fu blandamente sorvegliato dal regime, prestò giuramento come professore con sofferenza, fece vita ritirata negli anni Trenta e studiò (raccomandando politiche di segno opposto a quelle popolari in Italia e, per dir la verità, dappertutto).
Questa frequentazione così intensa del giornalismo, da parte di Einaudi, non ne rivela la vanità quanto semmai l’indole. Del futuro Presidente si può dire che non fosse un “pensatore originale” (e chi lo è, poi?): condusse studi di economia applicata, si immerse, soprattutto negli anni Trenta, nella storia del pensiero. L’attualità per lui era un laboratorio per mettere alla prova intuizioni e tesi. Inoltre, aveva una capacità straordinaria di spiegare in un italiano semplice e terso concetti complessi. Egli era un “autentico scrittore” (Gianfranco Contini). Nel suo gusto per il giornalismo sta anche l’insofferenza per i mondi “chiusi” dell’accademia, dell’industria, della politica. “La sua naturale vocazione, così come lo spingeva a rivolgersi con i propri scritti a una platea ben più vasta di quella scientifico-accademica, lo portava a dialogare con i giovani, anche se dissenzienti dalle sue teorie. Liberale fino in fondo, gli premeva che questi fossero in grado di ragionare da soli; il resto non importava” (Riccardo Faucci). “Nessuno meglio di Einaudi ha saputo giungere in limpida prosa alle grandi verità economiche partendo dai fatti familiari della vita quotidiana di ciascuno di noi. Vi è maggior elogio per un economista?” (Sergio Ricossa).
In sessant’anni di lavoro, per quanto vario, plurale e segnato da qualche inevitabile contraddizione, emerge chiaramente un profilo di Einaudi. Se egli reagiva al “fantoccio liberistico”, alla caricatura fatta del liberismo da parte dei suoi avversari, ricordando che Adam Smith aveva ammesso la priorità della difesa nazionale sui commerci e fustigato i proprietari terrieri assenteisti, non giocava al “pragmatico” né coltivava il gusto del compromesso (anche perché sapeva bene che l’equilibrio “politico” è ben diverso da quello “economico”).
Alla fine, per Einaudi,
Liberisti sono coloro i quali, ragionando, cercano di precisare le ragioni ed i casi ed i limiti dell’intervento dello stato e degli altri numerosi e variabilissimi enti pubblici nelle cose economiche; e pianificatori sono coloro i quali gridano: piani, piani, piani! e producono confusione, facendo un’insalata russa abominevole dei piani che sono compito dello stato, di quelli che spettano ad altri enti pubblici e di quelli che, dacché mondo è mondo, ogni persona sensata ha sempre fatto, col nome di bilanci, preventivi, progetti, per condurre la propria impresa o la propria famiglia.
Questa bella citazione viene da una risposta a Umberto Calosso, che è inclusa nel libro di Einaudi che mi sentirei di raccomandare per ricordarlo. Anche se è una lettura meno bella delle Prediche inutili, Lo scrittoio del Presidente è un documento notevole. Riunisce quanto Einaudi scrisse, a vario titolo, al Quirinale: a cominciare dai messaggi alle Camere in spirito di “collaborazione e amicizia”. Il materiale è vasto, dunque mi limito a cinque segnalazioni (senza attingere peraltro alla parte del volume sull’articolo 81 della Costituzione e la finanza pubblica). Un distillato di buon senso e rigore intellettuale.
Concorrenza e antitrust
Com’è noto, Einaudi avrebbe voluto che l’articolo 41 della Costituzione stabilisse che “la legge non è strumento di formazione di monopoli economici”. Tuttavia i primi tentativi di legislazione antimonopolistica in Italia (andarono a vuoto, i promotori furono Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi, poi nel 1960 lo stato maggiore del PCI), lo convincevano poco.
Da una parte regolare “gli accordi per limitare la libertà di concorrenza” non era soltanto “fare osservare una legge chiara” ma implicava “scoprire e dimostrare l’esistenza di atti aventi caratteristiche economiche reputate contrarie all’interesse generale”. La stessa esperienza americana era “ricca di successi e ancor già ricca di insuccessi”.
Inoltre,
È lecito manifestare un qualche scetticismo intorno al successo del tentativo quando si pensi che molta parte della legislazione vigente e dell’opera, consapevole o no, dell’amministrazione italiana è precisamente rivolta a porre le condizioni nelle quali fioriscono i monopoli. La protezione doganale, i contingentamenti, i vincoli valutari, i privilegi concessi alle imprese nazionali nei pubblici appalti, le limitazioni al numero dei negozi, le licenze di ogni specie di cui occorre premunirsi per attendere a questa o a quella attività economica, i vincoli alle migrazioni interne, i quali tendono a creare centinaia di mercati chiusi, i vincoli addizionali posti dai sindacati operai all’impiego di lavoratori provenienti da altre zone, la cosidetta disciplina dei prezzi stabilita dal C.I.P. (Comitato interministeriale prezzi) e tutte le altre specie di discipline, di cui sarebbe quasi impossibile compilare un elenco preciso, costituiscono il terreno fertile in cui nascono e crescono rigogliosi i monopoli.
In un ambiente economico sociale siffatto non è serio proporre discipline di attività monopolistiche che, d’altro canto, si fa di tutto per fomentare ed ingigantire. Non è serio e potrebbe anche essere considerato puramente demagogico.
Insomma, se è lo Stato il primo strumento di formazione di monopoli (agli esempi dell’elenco di Einaudi se ne potrebbero aggiungere altri), con che spirito metterà il naso nelle “posizioni dominanti” acquisite da privati? Con spirito monopolistico…
Il valore legale dei titoli di studio
L’unico modo per promuovere la concorrenza è evitare di costruire barriere legali e distribuire privilegi. L’Italia del 1952, come quella di oggi, si dimostra assai creativa nell’inventare “maniere eleganti di statuire privilegi legali”.
Essendo il Presidente “persuaso del vizio del sistema” di obbligare i concorrenti agli impieghi statali “di essere provveduti di determinati diploma di laurea o licenza a seconda del grado più o meno elevato dell’impiego messo a concorso”, nel 1954 rivede di suo pugno un decreto “concernente lo stato giuridico e il trattamento economico degli impiegati del Segretariato generale della presidenza della Repubblica”.
Fra i requisiti “non è elencato alcun titolo di studio”. Se "nella relazione illustrativa della sua attività, il candidato deve segnalare i titoli di studio che abbia conseguito”, “in mancanza di questi” può “illustrare ogni altro elemento il quale valga a dimostrare la sua capacità all’impiego”. I titoli “non è necessario siano conseguiti nello stato, potendo valere anche quelli ottenuti all’estero”. Dei titoli si può tener conto ma sul medesimo piano di altre caratteristiche che rendano atti all’impiego.
Inoltre, il bando rivisto da Einaudi “chiarisce, con la sua formulazione, il concetto del valore negativo da attribuire ai titoli formalmente superiori alla natura dell’impiego messo a concorso; sicché si metta possibilmente una remora alla tendenza di giovani forniti di diplomi dottorali o superiori di presentarsi a concorsi per impieghi d’ordine o subalterni”. I titoli di studio hanno il solo valore “di presunzione generica di attitudine a coprire impieghi, la quale può tuttavia essere altrimenti, e con uguale efficacia, dimostrata”.
Ve lo vedete un qualsiasi Presidente della Repubblica successivo a riscrivere di suo pugno un bando di concorso? Ma la difesa dei propri principi è davvero un continuo esercizio e così era per Einaudi.
Passaporti e “vincolismo”
La libertà di movimento, “la libertà assoluta che ogni cittadino possiede non solo di muoversi liberamente nel territorio nazionale, ma di uscirne e rientrarvi altrettanto liberamente” è centrale nella “libertà dell’uomo comune”, che è quella che Einaudi ha sempre avuto a cuore e cercato di difendere. Di qui, il suo fastidio per la mente formatasi “nei ministeri e che trae i funzionari a considerare il passaporto come una graziosa concessione dello stato, come un beneficio che poteva essere offerto al cittadino, ma a cui questi non aveva diritto”.
Il Presidente nel 1950 raccomandava di “far piazza pulita di tutte le tasse gravanti sui passaporti, ad eccezione del rimborso puro e semplice del costo del libretto”. L’obbligo di apporre ogni anno una marca da bollo sul passaporto è stato abolito solo nel 2014.
In quelle pagine, Einaudi scolpisce una massima aurea:
E’ vano lamentarsi dei vincoli altrui, quando noi poniamo vincoli da parte nostra all’uscita dei cittadini dallo stato. Anche se questi vincoli appaiono leggeri in confronto a quelli del tempo passato, sono sempre economicamente vessatori e moralmente inammissibili.
L’esercito europeo
Su un tema oggi apparentemente di moda, Einaudi aveva nel 1951 le idee più chiare di chi ne straparla nel 2024. Esso implica “un minimo di condizioni”:
(1) Sia costituito uno stato maggiore unico e comuni comandi di corpo;
(2) Le divisioni, reclutate, per ora, territorialmente, e composte di ufficiali, sottufficiali e soldati tutti appartenenti ad una sola nazione, gravino sul bilancio comune.
Ciò vuol dire soppressione di un vero e proprio ministero nazionale della difesa, con poteri di decisione nei singoli paesi.
Il Presidente aveva una posizione precisa anche sulle modalità di finanziamento: “ogni stato contribuisce con la rinuncia ad una od a più imposte indirette”.
Confrontate questa posizione con chi invoca l’esercito europeo a ogni pie’ sospinto, senza ammettere che richiederebbe un comando unico (verosimilmente, francese) e pensando, ovviamente, che sia un’altra occasione per fare debito.
La disoccupazione e le politiche pubbliche
Einaudi scrive a Giorgio La Pira, non ancora sindaco di Firenze, dopo aver letto un articolo. “Parrebbe, a leggerla, che coloro che possiedono le leve dell’economia, della finanza e della politica debbano adempiere ad un solo ufficio: dare a tutti il lavoro e il cibo al tempo opportuno”.
Il Presidente suggerisce che
La premessa secondo cui lo sradicamento della disoccupazione e della miseria non può essere operato organicamente che dallo stato e costituisce il compito nuovo ed in un certo senso fondamentale dello stato moderno, deve essere messa in connessione con un’altra premessa che non ho visto da lei elencata e cioè che lo stato moderno ha come primo compito di non creare quella disoccupazione e quella miseria di cui Lei giustamente si preoccupa.
Il primo dovere dello Stato sarebbe non creare disoccupazione. Invece
Ernesto Rossi si è meravigliato giustamente che in Italia i disoccupati siano soltanto due milioni. Io vorrei aggiungere essere miracoloso che in Italia i disoccupati non siano quattro o cinque o più milioni, come dovrebbe essere se fossero osservate sul serio le leggi vigenti.
Perché? Anzitutto, i lavoratori non potevano spostarsi “senza il consenso di prefetti e di uffici, i quali sovra tutto sentono la voce di coloro, anche essi lavoratori, ma lavoratori restrizionisti, i quali impediscono ai poveri diavoli di venire a fare loro concorrenza”. Divieti di licenziamento e ricatti sindacali che tenevano artatamente alti i salari disincentivavano l’occupazione. Ma anche i “monopolisti di parte imprenditrice” con dazi e contingenti d’importazione limitavano l’efficienza del sistema. “Tutto ciò non crea lavoro; tutto ciò distrugge lavoro; tutto ciò diminuisce la quantità delle merci che sono prodotte e messe a disposizione dei lavoratori; tutto ciò crea quindi disoccupazione e miseria”.
Se la disoccupazione è soltanto di due milioni di persone ciò è dovuto al fatto che in Italia fortunatamente le leggi non sempre si applicano, che tutti disobbediscono in quanto possono a leggi insensate e antisociali. Nonostante la nostra disubbidienza innata qualche cosa però rimane: rimane abbastanza per creare il fenomeno della disoccupazione e per indurre molte persone da bene ad aggravarlo con la pretesa di volerlo abolire.
Luigi Einaudi, Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Torino, Einaudi, 1956.