Il libro che lanciò Luca Ricolfi nel dibattito pubblico era Perché siamo antipatici. La prima persona plurale stava per donne e uomini di sinistra. Fra le ragioni di tale antipatia, c’era già il fatto che alle persone la sinistra ammoniva di non “parlare come voi”, ovvero il politicamente corretto. A ciò si sommava la tendenza a usare un linguaggio “codificato”, programmaticamente complesso (o, forse, solo complicato), che “manda in esilio le cose e le sostituisce con formule astratte e parole vaghe”. Con questo suo nuovo libro, Ricolfi torna in qualche modo sul tema a vent’anni di distanza e lo fa con pagine brillantissime e assai lucide, che costringono a prendere sul serio un fenomeno che o ci è già entrato nella pelle, e quindi lo prendiamo come un fatto dell’esistenza, oppure che tendiamo a liquidare con una scrollata di spalle.
Ricolfi ama citare un articolo di Natalia Ginzburg sull’Unità, correva l’anno 1989, nel quale la scrittrice biasimava il “falso rispetto delle nuove parole” con cui il cieco è stato ribattezzato non vedente, il sordo non udente, lo spazzino operatore ecologico.
Dentro di noi non abbiamo smesso di chiamarli spazzini, ma sappiamo che è stata coniata per loro questa parola grottesca, da una società che ignora l’ironia e che ritiene di poter coniare e diffondere a getto continuo le proprie irreali parole. Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che ne fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo.
Il politicamente corretto di ieri è diventato Il follemente corretto. L’avverbio spiega la struttura del nuovo libro di Ricolfi, che di solito è uno scrittore meticolosamente ordinato, che ama costruire schemi e categorie, e invece stavolta procede impressionisticamente, per capitoli che raccontano casi, talora persino divertenti (le raccomandazioni linguistiche della Commissione europea che vuole scongiurare l’uso della parola “Natale” per riferirsi alle vacanze di Natale; l’associazione dei produttori americani di materiali audio che abolisce le espressioni “jack maschio e jack femmina”, il primo diventa plug la seconda socket), ogni tanto tragici (Kathleen Stock costretta ad abbandonare l’insegnamento a causa delle sue idee "transfobiche"). In qualche modo, la “follia” di continue innovazioni linguistiche, nuove forme di censura, inedite punizioni esemplari per chi non si adegua sempre più lontane da qualsiasi simulacro di buon senso, obbliga a farne tante fotografie diverse. Sulla base di tutto ciò Ricolfi costruisce una delle due tesi forti del libro. Che, cioè, le basi della cultura woke affondino in una tendenza in Italia emersa in un dibattito fra Norberto Bobbio e Alessandro Pizzorno, dopo la pubblicazione di Destra e sinistra da parte del primo. Bobbio associava la diade destra/sinistra alla dicotomia diseguaglianza/eguaglianza, Pizzorno suggeriva invece esclusione/inclusione.
L’inclusione è un processo proteiforme: c’è sempre qualcuno che si scopre escluso, c’è sempre qualcuno che si può includere. Di qui vengono alcune delle caratteristiche del politicamente, poi follemente, corretto: il vittimismo, che per Ricolfi è la contropartita dell’età dei diritti; la “distribuzione” sempre più disinvolta di questi ultimi; l’impostazione della lotta politica in nome dei diritti delle minoranze a prescindere dalle rivendicazioni delle stesse.
Non si combatte per se stessi, ma per i diritti altrui, spesso senza che questi “altri” per cui si combatte ci abbiano conferito alcuna delega. Può sembrare strano, per chi è vissuto nel secolo scorso, ed è abituato a pensare che le battaglie per i diritti richiedano la mobilitazione dei diretti interessati. Ma è meno strano se si riflette sulle funzioni che l’adesione al follemente corretto è venuta via via assumendo, prima fra tutte il cosiddetto virtue signalling. Se le lotte ottengono pochi risultati concreti ma sono ubique, è perché il loro obiettivo è innanzitutto staccare un dividendo morale, che rende più agevole l’accesso alla nuova élite.
Quest’ultimo punto è, almeno per me, il più convincente del ragionamento di Ricolfi: il politicamente/follemente corretto come linguaggio codificato della classe dirigente. Ciò che trovo meno persuasivo è l’idea che per la “sinistra”, politica e intellettuale, il follemente corretto sia l’alternativa cheap all’interventismo vecchio stile. Le politiche sociali costano molto, al bilancio dello Stato, i giochi dei pronomi poco: difendere le prime, oggi, richiederebbe creatività nell’escogitare nuove forme di prelievo fiscale ovvero una revisione della spesa pubblica in essere. Con i secondi si crea consenso a costo zero.
Anche in questo libro, come in alcuni suoi lavori precedenti, Ricolfi si confronta con il cambio di pelle della sinistra dopo il crollo del muro di Berlino. Che senz’altro ha spiazzato i vecchi marxisti, costringendoli a una brusca correzione di rotta. Una delle “vittime collaterali” è, secondo lui, il femminismo, al punto che le femministe starebbero spostandosi “a destra”. Ma siamo sicuri che “diritti sociali” e “diritti politici” siano interpretati da intellettuali, e politici, di sinistra come alternativi gli uni agli altri? Non mi pare che l’ipotesi di inasprire il prelievo (pensate solo all’eterno ritorno del sogno della patrimoniale, come se la TARI, l’IMU e le imposte di bollo fossero altra cosa) sia una prospettiva aliena alla sinistra di oggi, che forse come non mai esige che “anche i ricchi piangano”. Il tentativo più raffinato di costruire una nuova egemonia attraverso (banalizzo) una “coalizione arcobaleno”, alimentando un conflitto sociale identitario che s’innesta su nuove interpretazioni del concetto di sfruttamento, è quello di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Di Laclau e Mouffe tutto si può dire, ma non che abbiano barattato il vecchio marxismo con un “dirittismo” annacquato: la mobilitazione delle minoranze oggi è funzionale a ravvivare obiettivi rivoluzionari che sono gli stessi di ieri. Parlando di figure meno intellettualmente eclatanti, è vero che, per dire, un Matteo Renzi ammiccava a sinistra coi “pacs” e i “dico”, mentre cercava di ridurre lo strapotere del sindacato. Quella fase politica e il tentativo di “berlusconismo di sinistra” di Renzi sono però finiti da un pezzo. Oggi è difficile sostenere che a sinistra ci si divida fra cultori del DDL Zan e nostalgici della lotta di classe.
O forse bisogna distinguere fra domanda e offerta politica. Sarah Wagenknecht, in Germania, ha avuto un successo straordinario interpretando esattamente il canovaccio di una sinistra “ricolfiana”: attenta ai diritti sociali e anti-woke. I ceti popolari vogliono essere rappresentati da qualcuno che non pretende di insegnare loro come parlare. Di solito lo fa la destra. Una domanda in quel senso c’è anche se è tutto da vedere se la sinistra sia attrezzata oggi per intercettarla. Nel contempo, l’America woke di Biden è la stessa che annunciava che “Milton Friedman isn’t running the show anymore” (come se l’avesse mai fatto, fra l’altro). Non è che chi si occupa di pronomi smette di distribuire sussidi - altrimenti verrebbe da consegnargli dizionario e bianchetto e lasciarlo giocare. Le due cose vanno assieme e l’una è funzionale all’altra: le parole servono a costruire consenso, il consenso serve a gestire risorse. Lo stesso Ricolfi attribuisce a Schlein un “percorso di ascolto dei ceti popolari” - ma non è Schlein l’incarnazione più sincera del wokismo nel nostro Paese?
Veniamo all’altra tesi centrale nel libro di Ricolfi, che invece a chi scrive pare lucidissima.
La seconda cosa di cui mi sono reso conto è che il follemente corretto non si limita a minare la libertà di espressione, ma incide profondamente sulla coesione sociale, rivoluzionando i rapporti fra classi e ceti, un po’ come nell’Ottocento era successo con l’ascesa della borghesia e la formazione del proletariato. L’avanzata del follemente corretto sta promuovendo l’ascesa di una nuova élite, che include soprattutto due grandi categorie. Da un lato le “vestali della Neolingua”, ossia il vasto mondo della comunicazione che presidia i gangli del potere nell’informazione, nel cinema, nella TV, nell’editoria, nelle università, nelle grandi imprese, negli apparati pubblici. Dall’altro le “lobby del Bene”, ossia la rete più o meno organizzata degli attivisti che instancabilmente - in nome di qualche causa ritenuta superiore e indiscutibile - cercano di imporre i propri punti di vista ai poteri che contano, ma anche di portare la nuova religione tra la gente comune, come i missionari in Africa ai tempi del colonialismo.
“L’adesione o meno al follemente corretto e alle sue regole sta diventando un potente strumento di attribuzione di status”. Se la linea del Partito come stella polare è cosa del passato e anche i giornali-partito non se la passano molto bene, il “follemente corretto” funziona come strumento di riconoscimento, aiuta ad annusarsi, a capire che si appartiene allo stesso branco. Branco che esclude quelle che, per capirci, possiamo chiamare le persone comuni. Ricolfi pensa che il follemente corretto “ha inguaiato la sinistra”. “Ponendo in cima alla graduatoria le minoranze sessuali e i migranti, l’azienda-sinistra ha finito per ignorare quasi totalmente il punto di vista dei suoi dipendenti-elettori storici”.
Il follemente corretto per Ricolfi mostra una “assenza di vincoli logici o semantici nella catena di libere associazioni che via via squalifica sempre più nuove parole”. La continua scoperta di nuovi esclusi e la necessità di includerli fa sì che “il movimento di purificazione della lingua non incorpora alcuna regola di stop, alcun criterio condiviso per porre un limite alle innovazioni arbitrarie e soggettive”. C’è sempre il più corretto che ti corregge. Questo è un limite del “movimento”, che sembra progettato per degenerare in forme di settarismo per paradosso sempre più “escludenti”.
Ciò detto, il sociologo torinese non è convinto che non ci sia scampo, cioè che “la cosiddetta cultura woke sia destinata a diventare la religione laica dell’occidente”. Il suo ottimismo viene proprio dall’averla identificata come nuovo “linguaggio codificato” dell’élite, che lascia indifferenti o addirittura suscita ostilità in vaste fasce della popolazione che élite non sono ma non possono neppure avvicinarsi a un establishment che li respinge proprio perché privi delle competenze linguistiche, chiamiamole così, necessarie ad accedervi.
Spero che Ricolfi abbia ragione, tendo a pensare abbia torto. Il follemente corretto è una dimostrazione esemplare della potenza delle idee. Ciò che si studia, si discute e si pensa nelle università per anni è parso (giustamente) irrilevante agli uomini del fare, fino a quando non si sono accorti che le loro stesse imprese si erano wokizzate. La potenza del mezzo televisivo sembrava destinata a polverizzare gli attardati adepti della religione del libro. Poi ci siamo accorti che gli autori della televisione, soprattutto quelli delle grandi piattaforme internazionali, si sono formati su quei libri. Pamphlet circolati in poche centinaia di copie dettano oggi come riscrivere la storia di Biancaneve o fanno sparire sigarette e pacche sul sedere dai vecchi film. A non cedere sono i comici, come Joe Rogan (diventato il principale podcaster politico d’America) o Ricky Gervais. In un mondo in cui domina il vittimismo e tutti hanno la pelle sottile, è difficile per loro fare il proprio mestiere. Sarebbe bello, se il follemente corretto fosse seppellito da una risata.
Luca Ricolfi, Il follemente corretto. L'inclusione che esclude e l'ascesa della nuova nuova élite, Milano, La Nave di Teseo, 2024, pp. 336.
Per me il follemente corretto si ritirerà sempre di più. Magari continuerà ad avere delle roccaforti, ma secondo me non esiste un mondo dov’è questa ideologia diventi popolare.
Non piace a nessuno…
Credo che parlare ancora di destra o sinistra non abbia più molto senso, il fenomeno è molto più profondo. Lei ha usato un espressione fondamentale, "uomini del fare", che credo sia la chiave per capire.