Lunedì scorso abbiamo presentato all’Istituto Bruno Leoni l’ultimo libro della casa editrice dell’Istituto, Le delusioni della libertà di Paolo Vita-Finzi. Sono intervenuti Claudio Giunta e Francesco Perfetti, autori rispettivamente dell’Introduzione e di un saggio incluso nel volume. Quest’apparato critico non è l’ultima ragione di interesse del libro: Perfetti, che è anche uno storico della diplomazia italiana, ha avuto amicizie e frequentazioni in comune con Vita-Finzi, il quale fece carriera diplomatica e arrivò a essere ambasciatore a Helsinki, Oslo e Budapest, pertanto gli viene facile ricostruire le sfumature e i sapori del liberalismo di questo scrittore “eccentrico” (Le delusioni della libertà sta in una collana che per l’appunto si intitola Liberalismi eccentrici). Giunta se ne è appassionato per la qualità letteraria delle sue opere, ne ha scritto più volte, inclusa la bella voce biografica nel dizionario Treccani.
Di Vita-Finzi so il poco che ho appreso da Giunta e Perfetti. Le delusioni della libertà è un libro strano e fascinoso, una raccolta di “medaglioni” biografici per Il Mondo che tutti insieme disegnano una galleria di chierici che hanno tradito, preparando indirettamente il terreno al fascismo. In alcuni casi (D’Annunzio, Marinetti, Prezzolini, che pure delle sue “vittime” è quello che a Vita-Finzi risulta più simpatico) l’arringa dell’accusa è convincente, in altri (Croce, Mosca, Pareto) si dovrebbe discutere ma sono proprio questo ultimi a dare pepe al libro. Che, per me, dimostra la propria grandezza negli ultimi capitoli, quando Vita-Finzi indica una circostanza precisa nella quale il deprezzamento delle formalità, l’odio per le rigidità incomprensibili della società borghese, l’insofferenza per il tempo che esige il rispetto delle procedure s’insinua nello Stato cosiddetto “liberale” e ne erode le fondamenta dell’interno: il colpo col quale Salandra lasciò la Triplice Intesa per aderire al patto di Londra. Grazie alla predicazione dei cattivi maestri oggetto delle critiche di Vita-Finzi, l’interesse nazionale era diventato nell’opinione pubblica informata, e quindi anche per il ceto politico, materia più viva e immensamente più meritevole di considerazione che i grigi contratti, quand’anche contratti fra Stati. Un atteggiamento che riflette una sete, una voglia di guerra, che aveva conquistato una generazione di intellettuali - e che forse conquista sempre gli intellettuali, con la non trascurabile differenza che parte di quegli intellettuali fu almeno chiamato al cimento eroico che tanto agognava, in prima persona.
La sete di violenza, guerra, rivoluzione è tale che gli uomini di pensiero sono disposti a mettere fra parentesi persino il loro valore-feticcio, cioè la coerenza, come scrive Vita-Finzi in un’aurea pagina sul Salvemini che ammette la vocazione neutralista delle masse, operaie e contadine, ma poi incita a non curarsene:
Diciamo che questa testimonianza è caratteristica, perché quel diritto della maggioranza a imporre il suo volere, invocato da Salvemini con così alte grida quando si trattava di eleggere, a onta dei mazzieri del prefetto, il deputato per Molfetta, non doveva poi più valere – a suo avviso – nell’ambito più grande dell’intera penisola: qui le minoranze illuminate di cui egli faceva parte avevano il diritto e il dovere di guidare le masse, e di portarle, obtorto collo, alla guerra e poi forse alla rivoluzione, che esse non volevano.
Con le leggi razziali, Vita-Finzi deve lasciare il servizio in diplomazia e torna in Argentina, dove in precedenza era stato console a Rosario. Qui fonda la rivista Domani cui fa collaborare, fra gli altri, Stefan Zweig, H.G. Wells ed Ernesto Sábato. Ma soprattutto qui s’impratichisce del Paese e conosce da vicino il peronismo, sul quale scriverà un libro nel 1973, Perón mito e realtà, pubblicato dall’editrice Pan di Milano e per ammissione dell’autore “frutto, più che di letture libresche, di otto anni passati in Argentina”.
Vita-Finzi scrive per smentire il mito e comporre il quadro di una realtà diversa da quella immaginata dagli ammiratori di Perón:
nella persona di Perón confluivano inquietudini, aspirazioni, speranze vaghe e difformi, a volte persino contraddittorie, ma di cui egli seppe abilmente farsi interprete e portabandiera. «Nulla è più ostico ai politici - ha detto Luigi Einaudi - del parlar chiaro»: e anche Perón si è avvalso accortamente della confusione nelle idee, dandovi però l’apparenza della chiarezza, e a volte addirittura dell’evidenza.
In questa figura di ufficiale insapore fino alle soglie dei cinquant’anni, che poi agguanta la massima carica del Paese, Vita-Finzi trova un personaggio diverso dai “rivoluzionari di professione” di scuola socialista (Mussolini incluso) e anche da una figura come Francisco Franco, che oggi ci sembra l’incarnazione della mediocrità ma che a 33 anni era stato il generale più giovane dell’esercito spagnolo. Perón diventa il paladino di tre cause: il nazionalismo, il desiderio di aggiogare il Paese al carro della modernità, la Chiesa cattolica nei cui ambienti trovò “un atteggiamento di benevola aspettativa, e in alcuni casi di vero entusiasmo”. Del resto, “il nazionalismo argentino ha sempre fatto mostra d’ardente cattolicismo, anche se tale sentimento è spesso sembrato più retorico che sincero, e mosso piuttosto dall’odio per i principi liberali che da sereno spirito religioso: un cattolicismo, insomma, all’Action Française”. Di qui viene una trama ideologica che serve a legittimare un caudillo il quale, con la forza dell’esercito alle spalle, riesce a stringere un’alleanza con il proletariato, stanco di essere governato da un’oligarchia possidente che pure aveva “assicurato alla Repubblica lunghi anni di pace esterna ed interna, fomentato il commercio, favorito l’afflusso dall’estero di capitali e di lavoratori, compiuto varie opere pubbliche, steso una fitta rete di comunicazioni, e fatto dell’Argentina il più progredito Paese dell’America del Sud”. Senza però avvedersi del ribollire della “questione sociale”. Difficile evitare di pensare al Cile di oggi.
Vita-Finzi parla, per il peronismo, di “democrazia totalitaria”, spiegando come, uno dopo l’altro, i vincoli al potere assoluto si rivelino mere guarnizioni del vestito costituzionale. L’incantamento delle masse operaie è parte del processo, così come lo è la rivolta contro la logica economica. Evita, al timone della sua Fondazione “distributrice di bambole, biciclette, macchine da cucire o palloni da football”, annuncia: “Fare i conti è un tic capitalistico: io dono”.
Se Le delusioni della libertà è un saggio che oggi si può leggere come quando venne pubblicato, non è questo il caso di Perón mito e realtà. Vita-Finzi non poteva prevedere che il peronismo sarebbe stato una costante della politica argentina per i cinquant’anni successivi, nonostante temesse l’infezione degli altri Paesi latinoamericani. Il libro ha un impianto cronachistico e il suo interesse, per il lettore di oggi, è più che altro quello di una testimonianza scritta in presa diretta. Ma è una testimonianza illuminante, acuta, di un osservatore innamorato del Paese di cui è chiamato a raccontare il declino, che si sforza di essere equanime ma non finge di essere sprovvisto di solide e meditate convinzioni.
Paolo Vita-Finzi, Perón mito e realtà, Milano, Pan Editrice, 1973, pp. 222