Henry Louis Mencken, il più intransigente e sarcastico dei commentatori politici americani, sostenne che nella sua persona “tutte le virtù immaginarie dei puritani divennero reali”. Il che è quanto di più sorprendente, sia perché Mencken detestava il puritanesimo e ancor più la politica e la persona in questione era quella di Grover Cleveland (1837-1908), ventiduesimo e poi ventiquattresimo Presidente degli Stati Uniti.
Non c’è un monumento a Grover Cleveland a Washington e non esiste neanche un museo, pur piccolo, che gli sia intitolato. Probabilmente, non gli sarebbe dispiaciuto. In questa sua nuova biografia, Troy Senik racconta Cleveland come la più strana delle creature: un uomo politico modesto nelle ambizioni, sgobbone, retto, dalle convinzioni, suggerisce il titolo del libro, ferree. In un’epoca come la nostra, nella quale la scena politica è occupata per metà da fanatici che s’infervorano al suono dei propri slogan e per l’altra metà da presunti “competenti” laureati con lode in opportunismo e addottoratisi in storytelling, uno come Cleveland non esiste. Un uomo di principi, il cui primo principio è onorare i denari del contribuente, impiegarli con oculatezza, spremendo se stesso fino all’ultimo.
Alla Presidenza, infatti, ci arrivò per caso. Discendente di quaccheri arrivati nel nuovo mondo già nel Seicento, Grover era il quinto figlio di un pastore presbiteriano del Connecticut, che aveva studiato a Yale e Princeton ma campava del magro salario della sua professione. Il giovane Grover non frequentò l’università e dovette, dai sedici anni in avanti, provvedere alla famiglia dopo la morte del padre. Non poteva fare grandi lavori, per un certo periodo fu maestro di scuola in un istituto per ciechi, ma il poco che portava a casa serviva alla madre e alle sorelle. Gli offrirono un sussidio per continuare a studiare, purché seguisse le orme del papà. Rifiutò con garbo. Della religione paterna gli rimase l’impianto culturale, l’etica del lavoro,.
Come molti giovani spiantati, puntava all’Ovest per fare fortuna ma per provvidenziale caso si fermò a Buffalo. Entrato in uno studio legale, divenne avvocato nel 1859, poi vice procuratore della contea di Erie e sceriffo. La carriera politica fu fulminea: prese servizio come sindaco di Buffalo nel gennaio 1882, l’anno dopo divenne governatore dello Stato di New York, nel 1884 si ritrovò in gara per la presidenza. Quando la carica di governatore gli valse una residenza ufficiale, a quarantacinque anni suonati, per la prima volta ebbe una casa tutta per sé senza stare a pigione da altri.
Raccontata così, sembra la rotta perfettamente tracciata di un abile navigatore del potere. Invece fu l’ascesa inaspettata di un uomo perbene. Sconfitto dal repubblicano Benjamin Harrison nel 1889, tornerà alla Casa Bianca quattro anni dopo. Caso finora unico (a Donald Trump piacerebbe imitarlo) di Presidente americano che abbia fatto due mandati non consecutivi.
Cleveland conduceva una vita monacale. Sin dai tempi in cui era sceriffo, la sua giornata di lavoro cominciava alle 8 del mattino e finiva alle 3 di notte. Le uniche distrazioni coincidevano con i pasti. Centoventi chili, spalmati su un metro e ottanta di altezza, Cleveland lavorava e mangiava, mangiava e lavorava. I ritratti ne rivelano le battaglie con le giacche che non si chiudono più e i bottoni perennemente precari. Parlava con una voce stridula, nonostante l’aspetto tenorile.
Lo strumento principe dell’azione politica di Cleveland fu il veto. Era “un serial killer di leggi”. Da governatore si confrontò con un’assemblea controllata dal suo stesso partito. Fece valere per quarantaquattro volte il suo veto in dodici mesi scarsi. Da Presidente, fece ricorso più volte al potere di veto lui che tutti i suoi predecessori ed è il secondo in tutta la storia americana per veti esercitati, dopo Franklin Delano Roosevelt che però stette in carica dodici anni. Non lo faceva per protagonismo, ma per mantenere lo Stato nel solco tracciato dai Padri fondatori. Per questo si scornò pure coi veterani della guerra civile. Non amava gli onori e riteneva che la politica dovesse essere un’attività modesta, buona amministrazione esercitata con criterio, lavorando a testa bassa.
Forse per questo il suo liberalismo era anche popolare, o forse populista. L’idea di aprire come una scatoletta di tonno uno Stato che ancora ne aveva le dimensioni, per evitare che la spesa pubblica diventi ancor di più terreno di caccia degli interessi privati. Il rispetto del denaro del contribuente che esige una disciplina ferrea della finanza pubblica. La trasparenza non come catasta di adempimenti formali ma come responsabilità davanti al cittadino, al contribuente, all’elettore. Sono temi che i liberali troppo innamorati della politica si sono fatti scippare, diventando a sorpresa i difensori di uno status quo che di liberale non ha molto.
La bella biografia di Senik ci ricorda inoltre qualcosa che tendiamo a dimenticare con troppa facilità. Cioè quanto in politica conti il carattere, quanto esso faccia la differenza, nel mondo degli uomini.
Per citare sempre Mencken: “Cleveland, che non ebbe mai sentore dell’imperativo categorico di Kant e che era altrettanto incolpevole in tema di teoria politica, guardava sempre al calvinismo della sua infanzia. Il calvinismo a cui aderiva era una versione depurata da tutti i suoi originari orrori. Dio, pensava, ha disposto l’ordine del mondo e i suoi decreti debbono rimanere per sempre imperscrutabili, ma c’era nondimeno molto da dire a vantaggio del duro lavoro, di un ragionevole ottimismo, e di una vigorosa fiducia in ciò che sembra giusto. Il dovere, nella sua essenza, sarà pure trascendente ma i suoi dettami sono emanati nell’inglese più chiaro e un onestuomo non può sfuggirvi”.
Troy Senik, A Man of Iron: The Turbulent Life and Improbable Presidency of Grover Cleveland, Threshold Editions, 2022, pp. 368.