La televisione commerciale e la “cultura” abitano mondi diversi. E’ quello che siamo tutti abituati a pensare, anche quelli fra noi che non hanno nostalgia della Tribuna elettorale e del maestro Manzi, della televisione in bianco e nero, possibilmente con un canale solo, rassicurante e pedagogica. Siccome il mondo è fatto com’è fatto, tendiamo a credere, persino quelli fra noi meno ostili all’impresa privata, che la cultura non appartenga a chi confeziona palinsesti come sandwich di spot televisivi, mirando a dare prosaicamente allo spettatore quel che vuole e quel che vuole tanto meglio di un fast food dello schermo non può essere. Del resto, in Italia la televisione commerciale non è stata risate sguaiate e poppe in bella vista?
Questo librone curato da Gianni Canova e Rocco Moccagatta, che presentiamo martedì a Milano in un’iniziativa dell’Istituto Bruno Leoni, suggerisce che le cose siano un po’ più complesse. Mediaset e il cinema italiano è una storia delle tre diverse incarnazioni (Reteitalia, Penta, Medusa) della presenza del gruppo Mediaset nel mondo del cinema, raccontate attraverso quel che più conta: i loro prodotti, storie e film che hanno segnato l’immaginario, esperienze autoriali che non ci si aspetterebbe abbiano nulla a che fare con la TV commerciale.
E’ una raccolta di saggi diversissimi l’uno dall’altro quanto preziosi. Nel libro c’è un capitolo che sprigiona nostalgia, “l’invenzione di Carol Alt”, l’incantevole modella-attrice che fece Marina Ripa di Meana nell’adattamento de I miei primi quarant’anni e fu centrale nella “Vanzina factory” degli anni Ottanta, ma si ripercorrono poco meno di quarant’anni di comicità sul grande schermo e vicende ben più elitarie, quali quelle legate ai nomi di Marco Risi o Franco Zeffirelli. L’impressione complessiva è, come scrivono i due curatori, di un “serbatoio/laboratorio, spesso anarchico”: il tratto che unisce i primi passi del Biscione nel mondo del cinema agli ultimi è l’approccio serenamente laico alla produzione, il rigetto dell’idea pedagogico-politica della “linea editoriale”, un pluralismo festoso e consapevole nel quale alto e basso convivono sotto lo stesso tetto, e dove il tratto comune è una qualità crescente soprattutto sul versante produttivo. Inevitabilmente, questa è la storia anche dei manager che hanno fatto quella storia, a cominciare da Carlo Bernasconi che per lungo tempo è il cinema nel gruppo.
Il libro è vario e affascinante come sanno esserlo le storie d’impresa. Quando la tv commerciale sta consolidando la sua presenza nelle case degli italiani, Silvio Berlusconi “si presenta alle Giornate professionali del cinema” e annuncia “il premio Superstar, che vuole promuovere il cinema di qualità, attribuito ogni anno ai tre migliori film della stagione e al miglior film italiano segnalato dalla critica”. E’ un’altra “discesa in campo”, prima di quella più famosa. Reteitalia è una società fondata nel 1979, per acquistare film e telefilm (traduzione per i più giovani: serie TV) da trasmettere sulle reti Fininvest. Berlusconi è già stato messo in burla in un paio di film, come ricorda Rocco Moccagatta, e siamo in una stagione nella quale il mondo del cinema da una parte vede la televisione commerciale come un’opportunità dall’altra s’indigna per il prezzo da pagare per finire nelle case di milioni di persone: le interruzioni pubblicitarie, cruciali nel business model di chi regala intrattenimento in cambio dell’attenzione a messaggi commerciali (vale per Canale 5 come per YouTube). Però Reteitalia diventa sempre più una casa di produzione, fino a quando non si evolve in Penta, sfortunata joint venture con i Cecchi Gori, allora “l’unica realtà cinematografica italiana che offra garanzie di successo commerciale ma abbia insieme ambizioni autentiche, fondate e sostenibili, oltre il mercato italiano”. Il sogno di una major all’americana che però (dice Antonio Sfondrini, deputy general manager di Medusa) si rivela “un’azienda complicata” nella gestione. Nei ricordi dei protagonisti (un punto di forza del libro), che si chiamino Maurizio Nichetti, Marco Risi o Giuseppe Tornatore, riaffiorano gli scontri fra Berlusconi e i Cecchi Gori, con la personalità del primo che ammalia e travolge il socio.
Medusa nasce dopo il naufragio di Penta ed è “tanti, tantissimi film”, a partire dalla distribuzione in Italia del Woody Allen degli anni in cui dirige Match Point, Scoop e Sogni e delitti e di un kolossal come la trilogia del Signore degli anelli. Ma nelle corde della società c’è anche l’attenzione ai generi, l’accompagnamento della nuova comicità italiana, il corteggiamento del grande cinema d’autore. Damiano Garofalo e Andrea Minuz dedicano un saggio a un “anno particolarmente difficile”, in cui esplode il dilemma della sinistra con la cinepresa: “si può essere di sinistra, dunque, antiberlusconiani, e fare film con Medusa?”. L’anno è il 2009, quarto governo Berlusconi, “all’apice del girotondismo”, quando Medusa produce Baarìa, pellicola d’ispirazione autobiografica di Giuseppe Tornatore che
diventa un terremoto politico. Da un lato, i braccianti, le bandiere rosse, Guttuso, l’epica del Sud neorealista, le ambizioni da Oscar di una grande produzione italiana. Dall’altro: i complimenti di Berlusconi: “Baarìa è un capolavoro che tutti gli italiani dovrebbero vedere, anche perché il film è la storia di un comunista idealista che resta deluso”. Tornatore è così messo di fronte alle proprie responsabilità civili: si evoca Rossellini (“prima fascista poi comunista”), il Visconti di Gruppo di famiglia in un interno prodotto coi “soldi dei fascisti”, cioè la Rusconi film, il compromesso storico.
Innanzi a questo crescendo di follie impietosamente rivangate da Garofalo e Minuz, viva la apparenti contraddizioni che segnalano la storia del rapporto di Mediaset col cinema italiano: contraddizioni felici e indubbiamente feconde, a scorrere la lista dei prodotti che ne sono venuti ma anche su un piano culturale in senso più ampio. Perché se il clima è un po’ cambiato, se abbiamo imparato a giudicare i prodotti e non i produttori per fare il verso a Popper, forse è anche grazie al presidio di Mediaset della trincea cinematografica. Dallo sterco del diavolo nascono i fior.
Che i nostri giudizi artistici siano un po’ meno ottusi, forse è più che una speranza. Ci inducono a pensarlo protagonisti come Checco Zalone o Paolo Sorrentino, che Gianni Canova giustappone in un suo saggio che probabilmente farà alzare il sopracciglio ai benpensanti. Zalone e Sorrentino, che “approdano entrambi nelle sale cinematografiche con il marchio Medusa” la quale ne distribuisce i film, hanno portato l’uno “il successo popolare e incassi da capogiro” e l’altro “la reputazione autoriale e la notorietà internazionale”. Ma se sono “complementari”, sono anche per certi versi sovrapponibili: “arcitaliani entrambi”, come scrive Canova, usano registri diversi eppure entrambi raccontano storie e raccontano l’Italia di questi anni facendo l’impensabile per l’intellighenzia. Cioè, sospendendo il giudizio. I tic più cialtroni dell’italiano zaloniano sono sempre compensati da qualche nascosta virtù, come a spiegare perché un Paese del quale si può dire tutto il male possibile, e infatti lo diciamo, poi sa esprimersi in un concentrato di intelligenza pratica e fattiva, sapienza artigianale, flessibilità libera da orpelli retorici come in nessun altro luogo. Sorrentino è un narratore autentico (leggete i suoi libri, belli in sé oltre a essere la prova generale dei suoi film) che sa benissimo quanto gli esseri umani siano un impasto di pregi e difetti, vizi e virtù e rifiuta ogni schematismo ideologico. E’ vero persino nei suoi film più “politici” e specialmente in Loro (che non poteva essere distribuito da Medusa, per ovvi motivi, e che oggi in Italia non si riesce neanche a vedere in streaming) che non è affatto un film anti-berlusconiano quanto, nella seconda parte, il grande ritratto di un seduttore, più vittima che impresario del suo entourage. Zalone e Sorrentino sono impensabili in un cinema che non si è slacciato il colletto dell’impegno e in questo sono entrambi figure post-berlusconiane: nel senso che sono impensabili senza quel cannoneggiamento della mistica dell’intellettuale engagé condotta dalla televisione commerciale non in nome di un’ideologia alternativa ma su mandato del telespettatore.
Il libro è di grande formato, un perfetto coffee table book, con una selezione d’immagini che spalanca l’album dei ricordi della nostra vita di spettatori. Ed è un peccato, perché in libri del genere i testi sono di solito un complemento all’immagine mentre qui ce n’è da leggere, a cominciare dai tre densi capitoli che Rocco Moccagatta dedica a inquadrare le vicende di Reteitalia/ Penta/ Medusa. Speriamo in una ristampa tascabile, formato home video.
Gianni Canova e Rocco Moccagatta (a cura di), Mediaset e il cinema italiano. Film, personaggi, avventure, Milano, Mondadori Electa, pp. 400.