Data infausta, l’undici settembre. Lunedì ricorre non solo l’anniversario delle Torri gemelle ma anche quello del golpe di Pinochet in Cile. Il cinquantesimo. La situazione del Paese latinoamericano, oggi, è particolarmente complicata, il che infiamma la ricorrenza. Nel 2022 è stato eletto presidente Gabriel Boric, esponente dell’estrema sinistra. C’è stata la convocazione di una assemblea che doveva porre mano alla Costituzione, risalente all’epoca di Pinochet ma ha consentito la transizione e poi trent’anni di serena dialettica democratica. Quell’assemblea ha scritto un progetto costituzionale poi rifiutato dagli elettori.
La polarizzazione degli ultimi anni in Cile ha fatto sì che il golpe, la repressione, le politiche “cubane” di Allende, tornassero di tremenda attualità. Vecchie ferite si sono riaperte. A dispetto di quanto avvenuto negli anni precedenti. La dittatura di Pinochet si conclude con un plebiscito, nel 1988, che mette il Generale alla porta. Dalle successive elezioni presidenziali del 1990, per un ventennio il Cile è governato dal centro-sinistra della Concertación. La tradizione democratica si rinnova con sorprendente vitalità e il Paese cresce, ha il reddito pro capite più alto del continente (sarà superato da Panama solo nel 2019). I governi democratici insomma confermano, e anzi rafforzano, quel modello economico che allora veniva definito “neo-conservatore” e poi è diventato “neo-liberale” o “neoliberista” (una delle parole passe-partout dei nostri tempi) che si era andato delineando grazie ad alcune riforme fatte sotto il governo militare. Tali riforme si debbono a un manipolo di economisti che ebbero responsabilità di governo: i “Chicago Boys”.
Scrivere un libro equilibrato sul tema sembrava impossibile. Sebastian Edwards ce l’ha fatta. Rampollo di una importante famiglia cilena, ha studiato a Chicago con Al Harberger (il “maestro” dei Chicago Boys). Contrario alla dittatura, aveva lasciato il Paese nel 1977. E’ dunque poco incline a perdonare ai colleghi economisti d’essersi compromessi con Pinochet. Ne conosce bene le biografie e la storia e, oltre ad avere studiato sui documenti, ha condotto tutta una serie di interviste in profondità con i protagonisti di quella stagione.
The Chile Project non può che partire dalla storia dell’accordo fra l’Università di Chicago e la Pontificia Università cattolica del Cile. Un accordo nato negli anni Cinquanta, per iniziativa di Theodore Schultz, all’epoca a capo del dipartimento di economia dell’Università di Chicago (sulla “scuola di Chicago” e per capirne le sfumature, ora si può leggere questo libro di Nicola Giocoli). Schultz fu uno dei primi economisti dello sviluppo e per deformazione professionale pensava che fra i problemi dell’America latina vi fosse l’assenza di economisti “con le abilità analitiche di comprendere il ruolo dei mercati, dei prezzi, dell’investimento in persone e dell’innovazione”. Da anni i complottisti vedono nei Chicago Boys la prova definitiva che Pinochet fosse un burattino del governo americano. In realtà quel programma di scambi universitari si inserisce latamente nelle politiche di aiuto ai Paesi più poveri inaugurate dall’amministrazione Truman, evidentemente: per provare ad attrarli nell’orbita statunitense. Era però, a tutti gli effetti, l’esito della negoziazione fra due atenei e riguardava l’offerta di borse di studio (con finanziamento statunitense, in parte pubblico in parte privato) a studenti cileni, in cambio della promessa da parte dell’Università cattolica di inquadrarne poi almeno quattro nel proprio corpo docente. Da principio Chicago aveva puntato a fare la stessa cosa con l’Università statale di Santiago del Cile, ma gli economisti lì erano marxisti e non ne vollero sapere. Il programma di scambio proseguì per alcuni anni. Poi rimase la consuetudine di un’attenzione particolare per gli studenti cileni: la mia amica Deirdre McCloskey racconta spesso di avere “insegnato a più Chicago Boys di quanto non abbia fatto Milton Friedman”, quando a fine anni Sessanta arrivò come giovane professore a Chicago.
Fu Friedman però a finire nell’occhio del ciclone. L’autore di Capitalismo e libertà visitò due volte il Cile, in una incontrò Pinochet e per questo subì contestazioni tremende, anche durante la cerimonia per il Premio Nobel nel 1976. L’episodio lo segnò: un capitolo dell’ “autobiografia di coppia” scritta con la moglie Rose è dedicato al Cile. Ai suoi contestatori, Friedman replicava di avere visitato anche dittature “di sinistra”, come la Jugoslavia, offrendo lì pure, per quanto poteva, i suoi consigli. A poco serviva ricordare che non parlava spagnolo e che i suoi contatti cileni furono estemporanei, o che in una delle sue visite aveva parlato diffusamente della precarietà della società libera. E’ ovviamente una pura congettura, ma non è assurdo immaginare che proprio i suoi rapporti cileni abbiano impedito a un altro economista di Chicago, Al Harberger, cui si debbono contributi di grande rilievo, di essere considerato per il Nobel. Harberger parlava spagnolo, aveva riempito il Cile di allievi, in quel Paese aveva persino trovato l’amore, ma, come ricorda Edwards, non era un uomo “di destra”. Anzi ricordava come la reputazione “destrorsa” della sua università non venisse da una prevalenza di repubblicani ma semplicemente dal fatto che, a differenza che in altri atenei, questi ultimi non erano esclusi “a prescindere”.
Gli economisti non sono onniscienti, checché i giornalisti che li intervistano possano pensare (soprattutto quando si tratta di Premi Nobel). Edwards è convinto che il breve incontro di Friedman con Pinochet sia stato importante, per rassicurare il Generale sulla strada presa in politica economica. Friedman aveva più volte espresso, privatamente e pubblicamente, le sue preoccupazioni in tema di diritti umani. Ma non erano né Harberger né Friedman a poter fare le riforme. Furono appunto i “Chicago Boys”, il più importante dei quali era Sergio De Castro. Nessuno di loro occupava una posizione particolarmente centrale nel dibattito pubblico, fino alla fine degli anni Sessanta. Però lo presidiavano, scrivevano sui giornali, cercavano di costruirsi una visibilità. Non lo facevano perché finanziati dal governo americano. Che tentassero di esserne parte attiva, non dovrebbe sorprendere nessuno: gli scienziati sociali spesso scelgono di fare il loro mestiere perché credono di contribuire a migliorare la società e questo contributo prende la forma di idee sottoposte alla politica. Tre di loro offrono alcune di quelle idee all’ex presidente Jorge Alessandri, secondo classificato alle elezioni vinte da Salvador Allende.
Allende, un medico con un lungo passato in politica, divenne Presidente col 36,6% dei voti. Forse proprio perché il suo consenso nel Paese era relativamente modesto, egli si imbarcò in un vasto e rapido programma di riforme pensate per avvicinare il Cile a due modelli: Cuba e la Corea del Nord. Il Cile veniva da un ventennio di performance economiche inferiori ai suoi dirimpettai, ma non aveva ancora visto nulla. Nel 1971 le miniere di rame, proprietà di multinazionali americane, vengono nazionalizzate e quelle aziende compensate “al prezzo del valore di libro meno gli ‘extra-profitti’ fatti registrare dal 1964”. Le banche sono nazionalizzate a caro prezzo. Centinaia di imprese manifatturiere vengono di fatto espropriate senza compensazione: facendo leva su una legge emergenziale del 1932, che consente al governo di assumerne il controllo sine die in caso di blocchi alla produzione (magari frutto dell’azione di sindacati vicini al governo). Tutto questo viene finanziato con politiche monetarie simili alla “Modern Monetary Theory”. L’inflazione media su base annua passa dal 22,13% del 1970 al 163,43% nel 1972 al 508,05% del 1973. Dopo un anno di crescita gonfiata, il PIL flette spaventosamente.
In questo contesto, ambienti militari cominciano a porsi il problema della stabilità del Paese. Alcuni alti ufficiali della Marina (Pinochet è ancora un generale vicino ad Allende) commissionano a un pool di economisti una agenda di governo. Ne viene fuori un librone, da allora noto, per le dimensioni, come El ladrillo, il mattone. Gli autori sono undici: nove di questi hanno studiato a Chicago, otto faranno i ministri. Solo uno di loro, però, è a conoscenza di chi siano i committenti di quel lavoro: gli altri pensano di stare preparando una serie di proposte per il nuovo governo, pur non avendo la più pallida idea di quando ci sarà un nuovo governo.
Spiega Edwards:
Da una prospettiva contemporanea, i suggerimenti di politica economica contenuti nel “mattone” sembrano alquanto blandi e ordinari. Non c’è nulla di radicale in essi, e molte delle proposte che vi sono contenute - con la possibile eccezione della riforma delle pensioni - oggi parrebbero una collezione di politiche social democratiche. Il testo indica otto obiettivi del programma: 1) accelerare il tasso di crescita economica, all’interno di un sistema politico democratico; 2) sradicare la povertà estrema; 3) tarare i programmi sociali sui più poveri, specialmente per ragazzi e anziani; 4) assicurare pari opportunità a tutti; 5) operare per raggiungere il pieno impiego, ma con lavori produttivi (e non invece gonfiando i ranghi della burocrazia); 6) raggiungere la stabilità dei prezzi e la stabilità politica; 7) minimizzare la dipendenza dagli aiuti dall’estero attraverso un sistema che generi sufficienti scambi economici con l’estero; 8) decentralizzare l’amministrazione.
Politiche che sembrano “moderate” in periodi “normali” diventano “rivoluzionarie” in periodi eccezionali. Di per sé non c’è nulla di particolarmente eversivo nel sostenere che i prezzi debbano essere il risultato del libero incontro fra domanda e offerta: ma in un’economia nella quale il governo risponde all’inflazione moltiplicando i calmieri, ripristinare le normali dinamiche di mercato ha effetti dirompenti. Gli errori rendono tanto più urgente una correzione di rotta ma, quando si accumulano in quantità, finiscono per ingigantirne la portata agli occhi di un’opinione pubblica assuefatta all’interventismo.
Se la vita degli economisti in politica è di solito uno slalom fra illusioni e delusioni, i Chicago Boys riuscirono a realizzare in larga misura El ladrillo. Da principio Pinochet li prese a bordo per la più banale delle ragioni: se Allende si era circondato di economisti marxisti, lui doveva andarsi a prendere quelli che marxisti non erano. Vi furono, nel corso degli anni, forti momenti di tensione e molte teste saltarono. Il periodo peggiore fu la crisi del 1982, quando il Paese perse oltre dieci punti di PIL. Milton Friedman l’addebitò al ricorso a un sistema di cambio fisso col dollaro (anche Edwards è della medesima opinione), voluto da Sergio De Castro, in barba all’ortodossia di Chicago che era invece per i cambi flessibili.
Edwards racconta le dinamiche interne al gruppo senza risparmiare dettagli, illustra le diverse personalità dei ricercatori coinvolti, ci spiega che l’omogeneità presunta, sia ideologica che politica, dei Chicago Boys è una frottola (del resto, come diceva Churchill, se metti due economisti in una stanza ne otterrai due opinioni diverse, tre se uno dei due è Lord Keynes). E’ convinto che riforme così incisive (in alcuni casi, a suo dire, eccessivamente incisive) sarebbero state molto più difficili in un contesto democratico. Il lettore ogni tanto è sbalordito da ciò che riuscirono a fare. Per esempio aprire l’economia cilena allo scambio internazionale, a dispetto del prevalere della melodia ideologica nazionalista. La cosa che personalmente trovo più incredibile è che un governo militare abbia accettato il decentramento amministrativo: che è il contrario di quell’ordine gerarchico e verticistico che è la forma mentis degli uomini in divisa.
Sull’esito, c’è poco da dire. Nell’ultimo lustro il modello cileno è entrato in crisi: secondo Edwards, sia perché a un certo punto ha smesso di produrre opportunità anche per la classe medio-bassa, allargando la forbice delle diseguaglianze, sia perché gli economisti “simil Chicago” si sono ritirati dalla scena, hanno pensato la battaglia fosse vinta e hanno lasciato campo libero a idee diverse. Non si discute il fatto che la performance del Cile sia stata, soprattutto nei primi anni del ritorno alla democrazia, straordinariamente superiore al resto della regione, che il PIL pro capite fosse il più alto dell’America Latina, che la povertà sia stata fortemente ridimensionata.
Ho postato una recensione (più breve di questa) del libro di Edwards su Instagram e un giornalista, del quale peraltro ho stima, mi ha rinfacciato di sostenere che il fine giustifica i mezzi e ha insinuato che vi sia una sorta di “copione ricorrente”, per cui ai “fascisti” si consiglia di fare politiche “neoliberiste”. Non so se il regime militare cileno fosse assimilabile, per impronta ideologica, al fascismo italiano (non era comunque questo che intendeva: “fascista”, come sappiamo, ha un campo semantico amplissimo). Sicuramente il mix di governo militare e politiche di liberalizzazione dell’economia è stato un’eccezione, non la regola. La storia dell’America Latina è costellata, purtroppo, di dittature militari. Di nessun’altra si ricorda che abbia aperto il Paese allo scambio internazionale o riformato il welfare. L’eccezionalità del caso cileno si spiega forse di più con il permanere sotto traccia di una forte (per gli standard latinoamericani) tradizione liberal-democratica, che con la persuasione del despota. Ma questa è materia per chi studierà quegli anni dal punto di vista politico con la stessa cura certosina con cui Edwards si è occupato dei Chicago Boys. Questo libro ci consente di ripercorrere la vicenda di un gruppo di studiosi prestati alla politica, per quanto in condizioni particolarissime. E ovviamente si interroga su quanto non sapessero e quanto abbiano fatto finta di non comprendere, delle violazioni dei diritti umani. Il giudizio morale di Edwards, non sulle riforme ma sui riformatori, è in larga misura negativo. Segnalo anche il suo articolo per Project Syndacate sull’anniversario del golpe.
Sebastian Edwards, The Chile Project: The Story of the Chicago Boys and the Downfall of Neoliberalism, Princeton, Princeton University Press, 2023, pp. 346.
Chi sarebbe il giornalista che ha commentato negativamente la recensione su Instagram?