Negli scorsi giorni sono mancati due personaggi importanti nel piccolo mondo liberale, Jacques Garello (qui un bel ricordo di Nicola Iannello) e Lorenzo Infantino (qui un profilo tracciato da Raimondo Cubeddu). I due non potevano essere più diversi, fisicamente (diversamente alto e dal generoso girovita Garello, molto attento al peso forma Infantino), ma anche per carattere. Se entrambi potevano rivelarsi fumantini, Infantino preferiva starsene fra i suoi libri, per licenziare con rigorosa regolarità i suoi nuovi lavori. Nato a Gioia Tauro, era calabrese fino al midollo, ma gli piaceva essere British in tutto ciò in cui quel traguardo gli era umanamente avvicinabile, dalle scarpe, al fazzoletto bianco ben piegato taschino, alla gestualità inusitatamente contenuta quando parlava, al puntiglioso rispetto delle scadenze (per la verità, ho conosciuto fior d’inglesi che operavano su un fuso orario tutto loro, ma viviamo di pregiudizi e i pregiudizi aiutano a vivere). Garello era invece un fiume in piena, amava stare in mezzo agli altri, era il tipo che ti dà l’impressione di pensare che i commensali alla sua tavola non siano mai in numero sufficiente. Li univa la passione per l’insegnamento e la curiosità di vedere che cosa i loro studenti avrebbero poi combinato.
Senza frequentarsi, i due sono stati coinvolti in un’impresa comune: cercare di rendere appetibile il liberalismo classico a un’intellighenzia europea che stava benissimo senza. Non erano “nati” liberali: Garello apparteneva a una generazione di giovani non di sinistra delusi dal “tradimento” (cioè dalla sopraffina abilità politica) del Generale De Gaulle sull’Algeria, Infantino era stato un giovane socialista, vicinissimo (come sempre restò) a Luciano Pellicani, tant’è che la sua prima curatela (Pluralismo economico e pluralismo politico, 1977) ha una “Presentazione” di Bettino Craxi. Per entrambi l’incontro intellettuale della vita fu quello con Friedrich von Hayek. L’opera dell’economista austriaco è stata costantemente al centro degli studi di Infantino, che si è speso fino all’ultimo per promuoverne nuove edizioni e traduzioni. I due Premi Nobel ricevuti da Hayek nel 1974 e da Milton Friedman nel 1976 sono l’antefatto necessario della grande avventura di Jacques Garello, l’Université d'été de la Nouvelle économie a Aix-en-Provence, una serie di seminari estivi che ebbero inizio nel 1978. Essi non furono importanti soltanto per i francesi. Non appena la cortina di ferro cominciò a scricchiolare, Jacques gettò lo sguardo a Oriente e come Rastignac disse: “E ora, a noi due”. Per anni, sventolando la carota di una settimana di vacanza in una incantevole città provenzale, riuscì a portare ad Aix studenti cechi, polacchi, ungheresi, rumeni, bulgari... Qualcuno poi si è dedicato all’insegnamento, altri sono finiti in politica, altri a lavorare per la banca centrale, eccetera.
Garello e gli economisti liberali della sua generazione si facevano chiamare i “nouveaux économistes”, etichetta che andava benissimo perché evocava i “nouveaux philosophes” che più successo ebbero nel dibattito francese. “Nuovi” perché consapevoli di alcuni approcci che stavano prendendo piede negli Stati Uniti fra gli anni Sessanta e Settanta (a cominciare dall’economia delle scelte pubbliche di James Buchanan e Gordon Tullock). Col tempo, scoprirono che quegli stessi approcci avevano un retroterra europeo e persino francese. Henri Lepage raccontava spesso di aver sentito per la prima volta il nome dell’economista francese Frédéric Bastiat negli Stati Uniti, dove La Loi era il livre de chevet di una generazione d’intellettuali liberal-conservatori. Una volta scoperto Bastiat (e ovviamente Jean-Baptiste Say e in generale tutto il gruppo degli economisti francesi d’inizio Ottocento), ne divennero instancabili promoter.
Questo libro ha molto a che fare con Garello (che pure non è uno degli autori) e un po’ anche con Infantino. Siamo nel 1979. L’editore italiano è SugarCO, cioè la casa editrice fondata negli anni Cinquanta a Milano da Piero Sugar e Massimo Pini. Luciano Pellicani ne è il grande animatore: negli anni Ottanta sarà SugarCO a pubblicare un libro epocale come Potere di Bertrand de Jouvenel, le opere di Ortega y Gasset, Marshall McLuhan, l’On Liberty di John Stuart Mill, La fine dell’economia di Sergio Ricossa e alcuni lavori, all’epoca totalmente dimenticati, di Guglielmo Ferrero.
L’antologia ha per titolo I nuovi economisti. Il mercato contro lo Stato. Analisi critiche e nuove idee economiche (più bello l’originale: L’économique retrouvée). I curatori sono Jean-Jacques Rosa e Florin Aftalion, l’ampia prefazione è di Ricossa. In quarta, si chiarisce che
il gruppo dei nuovi economisti non è composto da personalità «di destra» come una certa pubblicistica in Italia ha tentato di far credere. Jean-Jacques Rosa (36 anni) è stato segretario socialista del Club Jean Mouline, ed è professore all’Università di Parigi e all’Istituto di Studi Politici di Parigi. Florin Aftalion, già consigliere dei sindaci e militante nel PSU di Rocard, ha quarant’anni, ed è professore di finanza presso 'l’ESSEC (Scuola Superiore di Scienze Economiche e Commerciali).
Ricossa nella sua Prefazione definisce i “nuovi economisti” come i “difensori della confraternita degli economisti”. L’Introduzione di Rosa e Aftalion reca il titolo “La scienza economica è obsoleta?”
La nostra epoca attribuisce un ruolo eccezionalmente importante ai problemi economici. Rari sono i dibattiti, politici o sociali, in cui non intervengano le nozioni di crescita, d’inflazione, di investimento o di riduzione dei redditi. Nello stesso tempo il sapere degli economisti è vivacemente contestato. Partendo dal principio che l’economia è una cosa troppo seria per essere lasciata agli economisti, i membri dell’intellighenzia gridano ai quattro venti, con il sostegno attivo dei mezzi di comunicazione di massa, che bisogna ricostruire un’altra scienza economica, facendo tabula rasa delle considerazioni precedenti. Per questi radicali le teorie attuali usurperebbero il nome della scienza e non servirebbero, in realtà, che a giustificare con il ragionamento formale gli interessi egoistici di alcuni gruppi sociali. L’accusa è vecchia quanto la scienza economica stessa ma, di recente, il pubblico colto si è lasciato sedurre da queste tesi facili da capire e abilmente accordate con le idee alla moda.
I diversi capitoli del libro offrono un’analisi delle motivazioni contingenti, ma anche di carattere più generale, della sfiducia negli economisti e nell’economia.
La prima era l’effetto-boomerang dell’entusiasmo per quegli interventi che avevano contrassegnato soprattutto gli anni Sessanta. “Per l’opinione pubblica, la scienza economica si identifica in primo luogo con la macroeconomia, che ha rappresentato la tradizione dominante da Keynes in poi”. “Dalla seconda guerra mondiale in poi i paesi occidentali hanno conosciuto un’era di miracolo economico caratterizzata da una vigorosa espansione che ammorbidiva tutte le difficoltà. I governanti sono stati propensi a credere che i loro interventi, giustificati dai teorici di ispirazione keynesiana, fossero alla base della nuova prosperità”. La stagflazione degli anni Settanta trascina gli economisti dagli altari alla polvere.
La seconda era la crescente sofisticazione formale della scienza economica e l’iper-specializzazione degli economisti. Quest’ultima produceva lavori considerati alla stregua di “giochi intellettuali esoterici privi di portata pratica” da parte dei non-specialisti.
La terza era l’afonia degli economisti sui problemi istituzionali. “Troppo spesso il fascino dell’eleganza matematica o delle tecniche econometriche serve solo a mascherare le debolezze del discorso, l’assenza di contenuto reale o l’evanescenza dei concetti”.
A tutto ciò in Francia (ma forse anche in Italia) si aggiungeva un duplice “disordine ideologico”: la sopravvivenza di certo “marxismo dogmatico” ma soprattutto
un rifiuto fondamentale e paradossale della spiegazione in termini economici, estremamente diffuso presso gli economisti francesi. «Gran parte di questi non ama affatto, in fondo, ragionare in termini di prezzi, di costi, di profitti e di guadagni, di moneta e di mercato. In questi concetti, e soprattutto nelle realtà che esprimono, essi vedono qualcosa di sporco e di malsano: certamente si è obbligati a servirsene, ma, via, andiamo avanti! Precipitiamoci nel “sociologico” e nel “politico” dove troveremo relazioni più ricche di contenuto umano, di rapporti di forza e… lo Stato».
Quelli che nel suo saggio Aftalion chiama “gli antieconomisti” coltivano una visione totalmente conflittuale del mondo, che arriva quasi a non contemplare l’esistenza stessa della cooperazione, in nome del “progresso di lotta per la conquista di questo bene rarissimo: il potere. Poiché tutto deve tendere a questa conquista, tutto deve essere subordinato alla politica”.
Proprio la necessità di rispondere agli “antieconomisti” conduce i “nuovi economisti” a perimetrare meglio la propria scienza, individuandone i limiti sulla scorta della lezione di Hayek (questo è un punto sul quale sia Garello che Infantino continueranno a insistere): “poiché non è possibile disegnare esperienze, bisogna contentarsi di osservare e misurare fenomeni che non si riproducono mai esattamente. La conoscenza imperfetta che possiamo così ricavare deve essere astratta sotto forma di modelli. (…) I modelli, che non sono necessariamente matematici, consentono di ragionare senza ambiguità. (…) Non bisogna dimenticare che così facendo si può essere incorsi nell’errore di non considerare le variabili più significative o di non ipotizzare le loro corrette interrelazioni”.
Nella sua Prefazione, Sergio Ricossa osservava:
Disincrostare il concetto di mercato dalle scorie, che vi si sono depositate a causa di grette polemiche politiche, è compito egregio giustamente fatto proprio dai «nuovi economisti». Il mercato, questo sconosciuto, eppure creazione popolare, invenzione del popolo per il polo. Che cosa sia, lo si sapeva meglio tempo addietro, per forza di mero buon senso, prima che dense nubi intellettualoidi oscurassero le cose più semplici e sperimentate. Quando Einaudi attaccava il suo libro più bello, le Lezioni di politica sociale, con la frase: «Siete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera?», faceva appello proprio al buon senso e alla conoscenza empirica, ciò che poi venne proibito dalla cultura sofisticata e avanguardista. Oggi non è possibile tornare alla elementarità einaudiana, e i «nuovi economisti» non ci ritornano: essi sono armati di ben più penetranti armi logiche, ma puntano nella medesima direzione.
“Disincrostare il concetto di mercato” è una buona descrizione di ciò che sia Jacques Garello che Lorenzo Infantino hanno cercato di fare, ciascuno a proprio modo, nello scorso mezzo secolo o poco meno.
I nuovi economisti. Il mercato contro lo Stato. Analisi critiche e nuove idee economiche (1977), a cura di Jean-Jacques Rosa e Florin Aftalion, Prefazione di Sergio Ricossa, Milano, SugarCo, 1979, pp. 208.