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Il ricovero di Silvio Berlusconi all’ospedale San Raffaele e le non facili condizioni in cui versa hanno, per l’ennesima volta, catapultato il Cavaliere al centro della scena politica. L’ultima volta in cui era successo davvero era quando il suo nome circolava per il Quirinale, nel terrore degli alleati Salvini e Meloni che, nell’ansia di disinnescare la bomba, misero in scena il brutto copione che portò i parlamentari italiani a non scegliere un Presidente della Repubblica ma a rassegnarsi a tenere quello che c’era. Il fantastico colpo di teatro di Berlusconi - che dal niente aveva montato, come l’impresario teatrale rotto a mille avventure che è, un circo sulla sua candidatura - era stato sgonfiato in una mesta commediola dai suoi alleati. Tutto sommato, per il Cavaliere una storia già vista: è dal 1994 che ci racconta come ai suoi sforzi, straordinari, corrisponda regolarmente il sabotaggio della “vecchia politica”, incarnata da alleati infidi. Io vorrei tanto governare, ma sfortunatamente non mi avete dato il 51% dei voti: questo l’eterno refrain del Berlusconi che, facendo di necessità virtù, da capo del governo era tanto decisionista a parole quanto affezionato al troncare e sopire nei fatti.
Ma se fare il bilancio della “rivoluzione liberale” promessa nel ‘94, ripromessa nel 2001, mezzo-promessa nel 2008 è facile (non c’è stata), lo è molto di meno fare un bilancio del berlusconismo. Nel catalogo dei primi ministri che promettono grandi riforme e poi fanno proprio poco, di solito costretti dai loro ministri (come nel caso della legge Biagi), Berlusconi non è certo solo: ha anzi illustre compagnia, incluse figure che, sulla carta almeno, a Palazzo Chigi sono arrivate nel consenso generale senza incontrare mai una frazione dell’ostilità che invece il Cavaliere ha sempre dovuto fronteggiare. A differenza di costoro, lui era ed è Berlusconi.
Su Berlusconi e il berlusconismo si è scritto di tutto. Libri che magari sono andati per la maggiore, che forse hanno perfino arricchito chi li ha scritti ma di cui, fidatevi, non resterà nulla. Fa eccezione questo saggio, veramente straordinario, di Giovanni Orsina. Che paragonerei, se Giovanni non s’offende, a Loro, il film di Sorrentino: che è, sul grande schermo, l’equivalente, cioè la cosa migliore che si potesse fare con Berlusconi ancora in vita. Il caimano immagina Berlusconi che fa il golpe, e Berlusconi non è mai riuscito nemmeno a “occupare” davvero la Rai. Loro ne coglie il tratto essenziale: il bisogno patologico di piacere, con tutto quel che di buono e tutto quel che di pessimo ne è venuto.
Orsina coglie l’essenza del berlusconismo, che da questo punto di vista comincia da ben prima della “discesa in campo”. L’Italia, spiega Orsina, è un Paese nel quale le classi dirigenti si autorappresentano quanto più distanti dall’italiano comune. Nota bene: il saggio di Orsina esce nel 2013, la discussione su popolo/élite è ben lontana dal prendere il centro della scena, la Brexit è una fantasia, Trump un imprenditore edile prestato alla televisione.
Le elites italiane si contraddistinguono per anti-italianità, nel senso del disprezzo per le persone che delle elites stesse non fanno parte. Continuano a ripetere, e non importa se siamo nel 2023 e non nel 1867, che “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”: perché gli italiani proprio non li digeriscono. Per questo abbracciano una politica sostanzialmente “ortopedica”: che non ragiona su istituzioni e incentivi di per sé, come fra parentesi la politica dovrebbe fare, ma li pensa in maniera strumentale, per “moralizzare” un popolo cialtrone, truffaldino e sordo alla più alta cultura di cui solo la classe dirigente si sente proprietaria. Con l’eccezione dei protagonisti della breve stagione del centrismo, De Gasperi e Einaudi, tutti i politici italiani l’hanno pensata così: anche quelli più apparentemente laici e liberali, hanno sempre avuto il sogno, la tentazione, il bisogno profondo di costruire uno Stato più paternalista, come unica giustificazione del proprio personale impegno (e magari delle proprie personali ruberie).
Berlusconi smonta tutto questo. Anziché provare a mettere il busto agli italiani, affinché stiano finalmente dritti, dice loro: andate bene come siete, sono le istituzioni (il sistema dei partiti della prima repubblica, le tasse, una burocrazia pervasiva e pettegola come nessuna) che non vanno bene. E a questi italiani, per la prima volta accettati e persino elogiati da un leader politico per quel che sono, offre la più concreta delle prove delle sue buone intenzioni: se stesso.
Berlusconi è da decenni uno degli uomini più ricchi del Paese, è stato in alcuni anni l’uomo più ricco d’Italia, ma (e in questo, e solo in questo, somiglia a Trump) la cassiera e l’operaio si identificano con lui. Pensano: è uno di noi. E non perché lui glielo dica, ma perché lo riconoscono. Perciò,
la sua implicita promessa elettorale è sempre stata: io ce l’ho fatta, farò in modo che ce la facciate anche voi.
Agli albori della storia di Forza Italia, Alessandro Gilioli pubblicò un libro su “la storia, gli uomini, i misteri” del partito. C’era anche un paragrafo dedicato ai giovanissimi di allora che in qualche modo intersecarono i primi passi di quel movimento che sta nascendo. Uno di essi, di cui serbo un vago ricordo, concionava di Milton Friedman e del ruolo di Antonio Martino (pur essendo, il personaggio in questione, all’epoca leghista). Con ben più senno, una nipote di Dell’Utri invece dichiarava “grazie Silvio per i cartoni animati giapponesi”. Lei aveva capito qualcosa, che a tutti noi impallinati con Milton Friedman e affini è sempre sfuggito. Il busto agli italiani Berlusconi ha cominciato a toglierlo con la televisione commerciale, quando smontò l’idea della costruzione pedagogica dei mezzi d’informazione.
Che il Berlusconi politico fosse un liberale frenato dalle corporazioni, o un opportunista che capì che il liberismo funziona in campagna elettorale ma è un mal di testa continuo se praticato al governo, alla fin fine conta infinitamente meno del fatto che il Berlusconi imprenditori era un credente assoluto nella sovranità del consumatore. Nessun altro è mai stato tanto convinto che il cliente abbia sempre ragione.
Di qui, i cartoni giapponesi, Dallas (una serie intrisa di anticapitalismo ma che, trasmessa in Italia, diventò un’involontaria apologia di quello che Roberto D’Agostino battezzò l’ “edonismo reaganiano”), Drive In e quant’altro. Spiace che quand’era il più grande editore d’Europa Berlusconi non abbia pubblicato un libro liberista nemmeno per sbaglio, ma l’egemonia è stata picconata dall’abbraccio fra cultura popolare e Tv commerciale, non da altro. Berlusconi ha abbattuto il monopolio della Rai ma anche, cosa ancor più importante, l’idea che tutto ciò che passava in televisione fosse buono o cattivo sulla base del suo “messaggio” - e non invece divertente, piacevole, interessante di per sé, come accade a qualsiasi consumo di carattere culturale. Sarebbe successo lo stesso, l’avrebbe fatto qualcun altro. Ma l’ha fatto lui.
Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 239.