I gatti selvatici di diverse parti del mondo appartengono a quattro diversi gruppi genetici: europei, asiatici, sudafricano e nordafricano. Verrebbe facile ipotizzare che i gatti domestici che conosciamo nei diversi Paesi si siano in qualche modo evoluti a partire dal gruppo selvatico dominante in una certa area geografica. Esattamente come i cani sono gli eredi di lupi che hanno trovato conveniente diventare stanziali, ponendosi a guardia di un certo villaggio e in qualche modo cominciando a scambiare servizi con gli umani (da principio, protezione da altri branchi e predatori, poi compagnia) con gli umani, qualcosa del genere dev’essere avvenuta coi gatti. La Rivoluzione neolitica significa più cose da mangiare: e quindi un vantaggio per quegli animali che riescono a diventare commensali degli umani. A cominciare dagli odiati roditori, contro i quali a un certo punto (direbbe il senso comune) i felini debbono essere stati ingaggiati.
Invece tutti i gatti che ci fanno compagnia, che si chiamino “British” o “Persiano” o “Siberiano”, sono discendenti del gatto selvatico nordafricano. Come di preciso abbiano trovato posto in prossimità della nostra tavola, non è chiarissimo. Gli antichi egizi si facevano seppellire coi loro gatti e li trasfigurarono in divinità. C’era un tale interesse per i felini, nell’aldiquà come nell’aldilà, che esistono persino mummie di gatto “contraffatte”: nel senso che sembrano gatti, ma non lo sono. Sappiamo che gli egizi accusavano i fenici di rubare i gatti e che comunque, che li rubassero o che s’introducessero da soli nelle stive dei vascelli cartaginesi per sgraffignare generi di conforto, questi li trasportarono in giro per il Mediterraneo. Ai romani non piacevano granché: evidentemente avevano altri sistemi per tenere a bada i roditori. Del resto, alcuni studi recenti suggeriscono che popolazioni di felini e di ratti possano convivere tranquillamente, salvo qualche occasionale episodio di violenza. Mi ricordo una scena che osservai anni fa, a Napoli. Dei ragazzini giravano in tondo, in motorino, ovviamente in due e senza casco. A un paio di centinaia di metri c’era un’automobile della polizia locale con tanto di poliziotti locali, che non facevano assolutamente nulla. Fino a quando uno dei motorini commise l’impudenza di sfrecciarle davanti. A quel punto, l’onore delle forze dell’ordine doveva essere vendicato. Forse fanno così anche i gatti, coi topi.
Jonathan Losos ha scritto un libro che i gattari non possono non leggere ma il cui pubblico auspicabilmente non dovrebbe essere circoscritto solo a loro. Losos è un biologo evoluzionista che ha lavorato molto sulle lucertole. E’ anche un gattaro di lungo corso, che ha voluto mettere assieme l’utile e il dilettevole, le sue preferenze personali e la sua competenza scientifica. La prima cosa che s’impara, leggendo The Cat’s Meow, è quanta poca letteratura scientifica esista sull’animale più gettonato su Instagram. Ci sono, nello studiare i gatti, difficoltà specifiche. La più rilevante è il fatto che i gatti selvatici nordafricani (i “nonni biologici” dei nostri mici) si accoppiano senza problemi coi gatti domestici. Diventa quindi più complicato, a causa di questo processo di ibridazione, studiarne le peculiarità, che rischiarerebbero l’analisi del prosieguo del processo evolutivo. Inoltre, i gatti non sono proprio come i cani, che ormai a tutti gli effetti sono “invenzioni” dell’uomo: l’esito di una serie di incroci, con scopi non solo estetici ma soprattutto di selezione di animali atti a particolari mansioni e con certi tratti caratteriali. Però ci si avvicinano sempre di più e intere “razze” sono il risultato di una straordinaria differenziazione genetica avvenuta nello spazio di un paio di centinaia di anni di selezione indotta dall’uomo.
Losos ne racconta le vicende con stile brillante e molta insoddisfazione nei confronti dei luoghi comuni. A partire da quello per cui i gatti non miagolerebbero per intendersi fra loro ma solo per farsi sentire da noi. La base scientifica di questa verità che vi ripeterà qualsiasi gattaro che abbia letto la sua buona dose di siti Internet e libri divulgativi sui felini è riconducibile a un solo studio scientifico. Quindi forse è azzardato liquidare gli umani di riferimento che sentono i loro mici chiamarsi a vicenda come dei duri d’orecchi, che scambiano per un miagolio qualcosa d’altro. In materie come queste, sostiene Losos, lo scienziato non può rifiutarsi di considerare come materiale di studio anche video YouTube ed evidenza aneddotica, specie in assenza di studi condotti su grandi numeri.
Come Losos, chi scrive ha un gatto che riporta i giochini di pezza che gli vengono lanciati e, come Losos, da principio l’ha considerato un fatto straordinario, la prova che Nelson (nel suo caso) o Trottolo (nel mio) siano “cani travestiti da gatti”. Però questo comportamento, per affettuoso e piacevole (non sempre, non molto per esempio fra l’una e le due di notte, l’ora preferita da Trottolo per il riporto) che sia, non è precisamente “unico”: uno studio on line, condotto su 3000 proprietari di gatti, suggerisce che il 22% dei loro animali è abituato a portare ai rispettivi umani qualche oggetto per iniziare il gioco.
E’ molto improbabile che “in natura” i gatti selvatici abbiano mai fatto nulla di simile ma la questione “non è se i gatti selvatici ti riportano un gioco quando glielo tiri - certo che non lo fanno. Scappano o provano a mangiarti se sono abbastanza grossi per farlo. Piuttosto, la domanda è se il comportamento del riportare sia latente in altre specie e gli individui addomesticati siano quelli che lo esibiscono. L’alternativa è che i felini selvatici non riportino, che suggerirebbe che si tratta di un comportamento evoluto con la coabitazione con gli umani”. Un capitolo del libro di Losos si intitola “The Survival of the Friendliest”, la sopravvivenza del più amichevole, ed è dedicato proprio a quei tratti del comportamento felino che sono emersi nel rapporto con gli umani e che possiamo immaginare abbiano avvantaggiato alcuni tipi di gatti, più adatti a integrarsi nell’ambiente umano beneficiando di tutti i lussi che offre: a cominciare dalla ciotola piena di croccantini, ben più comoda che doversi procacciare una preda. A distinguere i “nostri” gatti dal gatto selvatico africano sono soprattutto i comportamenti, nel senso che esteticamente il nonno biologico somiglia molto ai nipoti. Pur senza avere tutta quella variazione di colori e pelo ormai comune in qualsiasi negozio d’animali. Un gatto arancione si sarebbe trovato in grande difficoltà, a nascondersi nella savana. L’ingresso di quel colore fra quelli trasmessi geneticamente si spiega probabilmente perché a quel tratto ne corrispondono altri: per esempio una maggiore robustezza (i gatti arancioni, Garfield docet, tendono a essere ben piazzati). In alcuni ambienti quel vantaggio doveva bastare a compensare lo svantaggio della visibilità, poi è entrato in gioco il gusto degli umani.
Jonathan Losos è molto attento a sottolineare come perlopiù stiamo parlando di congetture e ipotesi che altre ricerche potranno smentire. Guardare l’evoluzione nello specchietto retrovisore non è facile come sembra. Su poche cose abbiamo delle certezze. Per esempio sappiano che i gatti domestici hanno intestini più lunghi di quelli selvatici. Era già stato Darwin a notare che l'intestino del gatto domestico è più ampio e più lungo di quello del gatto selvaggio, ipotizzando che si dovesse alla dieta meno carnivora dell'animale addomesticato. Da principio Losos era scettico, anche perché Darwin si basava su ricerche francesi del 1756. Ma “non avrei mai dovuto dubitare di Darwin”, le cui intuizioni sono state suffragate da ricerche recenti. Per capire il “ragionare darwiniano”, questo libro è un buon compagno di strada.
Jonathan Losos, The Cat's Meow: How Cats Evolved from the Savanna to Your Sofa, London, Viking, 2023, pp. 400