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Non è poi così facile trovare una cartina di tornasole che aiuti a distinguere una società libera da una che non lo è, anche perché qualsiasi sistema politico è sempre una costellazione di istituzioni, abitudini, culture sulle quali, di solito, meno le conosciamo e più sono i perentori i nostri giudizi. Ma senz’altro una società dimostra di essere libera nella misura in cui accetta il dissenso, le opinioni estranee al sentimento prevalente, e magari non solo lo accetta ma riesce a farne uno strumento di apprendimento e di riflessione.
Questo vecchio libro di un grande storico, A.J.P. Taylor (1906-1990), ci offre una scanzonata panoramica dei “dissenzienti” della politica estera britannica. Il volume sortisce da una serie di lezioni nelle quali, ci avverte lui stesso, Taylor parlava a braccio e non si portava appresso che qualche citazione. Fra i primi storici ad avere un grande pubblico “televisivo”, in queste pagine Taylor privilegia chiarezza e spontaneità, a tutto vantaggio del lettore.
La parola “dissenzienti” ha un riferimento preciso: il dissenso dalla Chiesa d’Inghilterra. “Un membro della Chiesa d’Inghilterra può essere in disaccordo coi vescovi e ciò capita spesso, o almeno è la mia impressione. Un dissenziente pensa che i vescovi non dovrebbero essere. E così è stato anche con la politica estera nel nostro Paese”. In pratica, se “un uomo può essere in disaccordo con una particolare linea della politica estera britannica, mentre nondimeno ne accetta gli assunti generali”, il dissenziente ne ripudia “gli obiettivi, i metodi, i principi”.
Non sempre e non tutti i dissenzienti sono pacifisti. I dissenzienti sono però tutti amatori, nel senso di praticanti non professionisti dell’arte delle relazioni internazionali, estranei al corpo diplomatico e all’establishment militare. Per questo i dissenzienti sono stati sovente liquidati come “intellettuali senza radici” ma altrettanto spesso essi “sono stati profondamente inglesi nel sangue e nel temperamento, assai più dei loro pur rispettabili critici. Paine, Cobbett, Bright, Hobson, Trevelyan, quali nomi potrebbero essere più evocativi del nostro passato inglese?”
Ciò che consente di considerare come membri della stessa famiglia personaggi molto diversi, liberal-liberisti e socialisti convinti, attivisti politici e insigni accademici, John Bright e Bertrand Russell, Charles Fox e Ramsay MacDonald, è un’istanza di “moralizzazione” della politica internazionale: superare alle logiche della realpolitik, che essa coincida con il bilanciamento dei poteri seguito al Congresso di Vienna o con l’adesione alla causa americana nella guerra fredda.
Il libro è breve quanto denso e mi limito a ricordare due intuizioni preziose.
Da una parte, per Taylor il dissenso cambia di qualità, per così dire, con l’allargamento del suffragio e delle maglie della democrazia: non è più un discorso interno alla politica d’assemblea e deve stare al gioco dell’opinione pubblica. “L’impatto del dissenso era maggiore, ma rallentato nel tempo. Invece di fare la sua eroica comparsa nei dibattiti parlamentari, doveva attendere per il lento, talora impercettibile cambiamento nella pubblica opinione - un cambiamento che raramente riconosceva i propri autori”. Oggi i tempi sono molto accelerati ma agevolano discussioni extra-politiche e orgogliosamente tali - al punto che non contemplano la politica come strumento per raggiungere soluzioni (perché inevitabilmente compromissorie).
Dall’altra, a ciò si accompagna una cesura intellettuale. Richard Cobden (1804-1865) era un grande ragionatore (la sua era una retorica che si teneva alla larga dai richiami emotivi) che pensava che “il progresso della libertà dipende più dal mantenimento della pace e dalla diffusione del commercio e dell’istruzione che dall’operato dei ministeri”. Vedeva nell’imperialismo britannico una politica cucinata al servizio dell’aristocrazia, ma spesso per motivi più simbolici che materiali. Al contrario, i dissenzienti del ventesimo secolo pensano che ogni guerra sia una guerra capitalista. Taylor, pur essendo un laburista, non risparmia punture di spillo a chi crede che i carrarmati si muovano al comando dei grandi finanzieri.
Questo libro riguarda un’altra epoca e un altro Paese ma è straordinariamente attuale. Oggi è più facile che mai sovrapporre istanze morali alla politica internazionale e, innanzi a opinioni pubbliche sempre più emotive e reattive, liquidare il realismo come cinico grigiore. Non sono sicuro sia un bene.
A.J.P. Taylor, The trouble makers: dissent over foreign policy 1792-1939 (1957), London, Penguin, 1985, pp. 208.