Le seicentoquaranta pagine di Filippo Ceccarelli su Berlusconi si leggono bene, magari non tutto d’un fiato, ma con un gran piacere, perché il notista politico di Repubblica non perde mai il ritmo. E’ difficile esibirsi in un pezzo di bravura tanto lungo ma Ceccarelli ci riesce, apparentemente senza problemi. Il guaio è che per il lettore non è chiarissimo che genere di libro si sia ritrovato per le mani. Non aiuta la scomposizione in una prima parte, più breve, che dovrebbe essere di “bilancio” del berlusconismo nel suo complesso, cui segue il grosso del volume, diviso in quattro stagioni (primavera: Berlusconi fino al 1994; estate: dalla legislatura all’opposizione al 2008; l’autunno: dal ritorno al potere sino al 2011; l’inverno: quel che resta), di taglio più biografico. Non aiuta perché Ceccarelli alterna aneddoti e immagini e i fili del discorso intrapreso in un capitolo si riannodano con un’istantanea che fa capolino in un altro eccetera.
Ma non aiuta nemmeno perché il bilancio del berlusconismo che Ceccarelli si intesta all’inizio del libro prescinde, supera e, in qualche modo, “scusa” i fallimenti politici. Per un romano che per tutta la vita ha fatto il sommozzatore nelle acque non sempre limpidissime del retroscena, la politica italiana è essenzialmente teatro, non c’è “riforma” autenticamente possibile, le promesse sono giochi di prestigio più o meno riusciti. In più, Ceccarelli scrive per Repubblica e questo libro dovrebbe essere un po’ cucinato per il lettore di Repubblica. Spesso però la sua lunga narrazione sembra dominata dalla nostalgia.
Entro certi limiti, e con le dovute proporzioni, siamo invecchiati insieme. Quando si era messo a folleggiare con le minorenni e abbandonarsi al bunga bunga avevo poco più di cinquant’anni e mi era facile osservarlo e sbertucciarlo sotto la lente goffa della senilità; ora che sono prossimo ai settanta mi pare di capirlo meglio e ripensando a quelle scene pietose, quando indignava con le signorine e si addormentava nelle cerimonie ufficiali, ecco, capisco la crudeltà del suo destino e l’indulgenza ha preso il posto dello sfottò. Se proprio debbo essere sincero, qualche volta sono addirittura sfiorato dal dubbio che su alcune vicende - certe scelte di politica estera - avesse perfino ragione, mentre sono certo che molti di quelli che sono giunti al comando del baraccone Italia dopo di lui erano molto, ma molto peggio di lui. Più cattivi, soprattutto.
Negli affari internazionali, il riferimento è all’idea che commerciare con gli altri fosse meglio che far loro la guerra - e che alcune delle guerre in cui si stava infilando l’Occidente fossero dei cul de sac (emblematico il caso della Libia sul quale è proprio difficile dar torto a Berlusconi). La sua politica estera, finita l’era Bush ma anche durante, valse al Cavaliere l’attenzione un po’ malevola delle barbe finte americane e i sospetti di molti su una sovrapposizione non chiara fra gli interessi dell’uomo di Stato e quelli dell’imprenditore.
Il sentimento che muove l’autore si fa evidente quando ricorda una battuta del figlio, alla notizia della morte del Cavaliere: “è un peccato che in famiglia nessuno l’abbia mai votato”. Quella di Ceccarelli è la gratitudine, una tantum esplicitata, del giornalista politico per cui “un personaggio come il Cavaliere è stato un dono assoluto”. C’è poi il rimpianto per il tempo che passa, che inevitabilmente ci prende tutti. Ma c’è anche qualcos’altro. Una duplice constatazione, di carattere più generale.
La prima è che Berlusconi era “troppo”. Vi allude il sottotitolo: “una vita troppo”. Troppo che? Troppo tutto. La “prassi stregonesca berlusconiana” si fondava sull’idea che
bisogna comunque esagerare. Berlusconi lo spiegava come un comando interiore impartitogli chissà da dove in dialetto milanese: “Ti esagera! Il cliente vuole spendere un miliardo? Ti esagera, cerca di fargliene spendere due! Il cliente vuole fare pubblicità anche sulla Rai perché gli regalano venti spot? Ti esagera! Regalagliene venti”. L’arte preziosa della motivazione, secondo il Cavaliere, consisteva nel penetrare nell’animo altrui facendosi a seconda dei casi, se l’interlocutore aveva delle punte, concavo, o se invece gli mancava qualcosa, convesso - e tutte le volte che lo diceva, un’infinità di volte anche nel prosieguo della sua avventura, era come inoltrarsi in qualche divagazione sul Yin e Yang.
Detto con più acrimonia:
“Dalle mie parti”, ha scritto Franco Cordero, “li chiamavano ‘Bagalun d’l luster’ (lucido da scarpe): armati di una strenua loquela milanese, battevano fiere gremite da contadini diffidenti, prefigurando le tecniche dell’affascinamento mercantile, ottimisti, ridanciani, gesticolanti, svelti d’occhio e mano; la provincia cuneese, rimasta dalla nascente società industriale, le considerava figure comiche non immaginando quale futuro covassero”.
Il gusto iperbolico del venditore si salda con lo sproposito dell’ambizione (“ti prometto che da grande diventerò presidente della repubblica”, pare abbia detto al padre) e con il gusto di una vita in cui nulla fosse preservato dall’eccesso. Ceccarelli però non lo racconta come l’elevamento a potenza di tutto quanto di più cialtronesco c’è nel carattere nazionale, semmai come il riflesso di una “natura”, quella del Cavaliere, effettivamente unica, straordinaria, larger than life nel bene come nel male. E se non manca un’impietosa registrazione di tutti gli ammiccamenti al peggio del carattere nazionale, da lui studiatamente prodotti, l’impressione del lettore (o, almeno, la mia) è che il Berlusconi di Ceccarelli non sia affatto l’“autobiografia della nazione”: perché risulta sempre troppo, per la nazione e, soprattutto, per la politica italiana.
Si è autorizzati a pensare il peggio del giornalismo politico, a patto di riconoscere quanto noioso fosse registrare gli spostamenti millimetrici di Antonio Gava e della Corrente del Golfo in direzione di Forlani, le sottilissime controdeduzioni di “Rinascita” alla relazione di Berlinguer o le interviste di Nicolazzi sulla pari dignità nell’attribuzione di poltrone negli enti parastatali.
Per il giornalismo politico, Berlusconi fu la tv a colori e si capisce perché lo abbia scioccato e confuso, il giornalismo politico, costretto a confrontarsi con uno spettacolo nuovo. Questo ben prima della festa di Casoria con cui comincia il lungo declino del Cavaliere, nel quale il racconto pruriginoso e la storiella boccaccesca - che fosse vera, verosimile o persino suffragata dal diretto interessato - occupassero stabilmente il centro della scena.
L’eccezionalità della figura è nei suoi successi (aver reinventato l’edilizia residenziale, aver combattuto e sconfitto il monopolio televisivo, aver fondato un partito ed esser diventato la figura dominante della politica italiana per oltre un ventennio), di cui Ceccarelli non tace le ombre ma che egli è attento a non ricondurre solamente a queste ultime. I capitali di cui Berlusconi s’avvalse da principio non saranno venuti dal salotto buono dell’industria e della finanza italiana, ma pochi altri ne hanno fatto l’uso che egli ha saputo farne. C’è però anche una serie di tratti umani che Berlusconi sommava e che costringono a evitare di schiacciarlo su una dimensione: la spietatezza del capo (soprattutto con gli aspiranti concorrenti “interni”, come Gianfranco Fini), la megalomania, il gusto eccessivo anch’esso per risolvere problemi minuti (dall’arredamento alle sedute a tavola), che magari neppure gli competevano, la furbizia (regali a profusione ma spesso e volentieri patacche, perché “chi vuoi che faccia una perizia su un regalo di Berlusconi”), ma anche la cortesia, lampi non posticci di generosità, una capacità di “simpatizzare” con l’altro più diverso da lui.
Ceccarelli offre, e non potrebbe essere altrimenti, un ampio repertorio di intercettazioni, aneddoti, articoli, pettegolezzi confermati o no ma abbondantemente circolati, sulle “cene eleganti”. Ma racconta pure il periodo trascorso ai servizi sociali, un impegno “più simbolico che altro” passato al reparto Alzheimer e demenza senile all’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone in cui “il Cavaliere dava il braccio ai vecchietti durante le passeggiatine; distribuiva loro cioccolatini e caramelle, in seguito anche in versione light per non fargli sballare la glicemia; per le vecchiette c’erano catenine, orecchini e bigiotteria. Divenne subito molto popolare. Non si sottrasse ad alcuna incombenza, compresa quella di preparare i pappagalli”.
Da poco il Cavaliere aveva donato alla struttura un pianoforte. La sera di Natale si presentò alla Sacra Famiglia con Fedele Confalonieri per regalare ai pazienti e a loro stessi un po’ di allegria festiva e di canzoni. “Nel mio sistema di pensiero”, scrisse allora Sebastiano Vassalli, “le cene eleganti sono state bilanciate dal Natale di Cesano Boscone: quando Berlusconi, accompagnato al piano da Confalonieri, ha cantato per i malati di Alzheimer e lo ha fatto soltanto per generosità. Il tribunale non lo costringeva a essere lì a Natale, a metterci la voce e il suo migliore amico. E non lo ha fatto nemmeno per pubblicità, la cosa si è risaputa soltanto adesso e senza clamore”.
La prima constatazione, dunque, è l’eccezionalità della figura, nel bene come nel male. Il “troppo”.
La seconda constatazione è il disastro che le figure eccezionali possono produrre in tutto ciò che sta loro attorno. Ceccarelli ha poche simpatie, fra i comprimari della storia che racconta: qualche parole di stima è spesa per Giulio Tremonti, al successore del Cavaliere, Mario Monti, il notista di Repubblica rimprovera d’essere stato anche lui troppo, che in questo caso significa troppo serio, per il Paese che si trovò a governare. Ma in generale la corte del sovrano, con la solita eccezione degli antichi amici fidati, appare di qualità infima. Ceccarelli non si nasconde e non ci nasconde che se Berlusconi non era De Gasperi, i suoi contemporanei nemmeno erano Adenauer, de Gaulle o la Thatcher. La politica la fa chi la vuol fare, per carità, ma è difficile dire che negli ultimi anni abbia attratto le menti più luminose, o i profili più limpidi, dei nostri tempi.
Però ritrovarsi innanzi a tanti pezzi dell’arredo berlusconiano, tutti insieme, fa impressione. A metter malinconia non sono neppure le “badanti” che la stampa nel corso del tempo indicò come tali. Ma gli “Eserciti di Silvio”, i tatuaggi con le iniziali del capo, la più rabberciate, improbabili e caricaturali manifestazioni di solidarietà, certi editoriali che non erano scritti su commissione ma avrebbero potuto esserlo, insomma tutto quello che rientra nella categoria del compiacere per il gusto del compiacere. Se alcune storie si inseriscono senza difficoltà nel canovaccio del provinciale che va a Roma a cercar fortuna come può (che è lo stesso modo in cui le ha raccontate Paolo Sorrentino con Loro), altre stupiscono per la gratuità, la codardia esibita, per un servilismo a suo modo fiero. Ho sempre pensato che la fallita avventura quirinalizia del Cav fosse in realtà un abile stratagemma per esser lui a dare le carte a pochi minuti dal quarto scrutinio. Ceccarelli descrive invece tutta una improvvisata e sgangherata macchina elettorale, che dice molto della solitudine del candidato e ancor di più del cinismo e dell’improvvisazione (che non si escludono a vicenda) di chi se ne improvvisò aiutante.
Se, ammonisce Ceccarelli, un baraccone come l’Italia non lo rimette in sesto un uomo solo al comando, a maggior ragione se di tenere il timone si stufò abbastanza presto come il Cavaliere (per cui governare era, in ultima analisi, una noia), egli può comunque, indirettamente, suscitare il peggio in chi gli sta attorno. La forza d’attrazione del carattere sommata al potere e ai quattrini richiama nella sua orbita, letteralmente, di tutto.
Che cos’è, allora, il libro di Ceccarelli? La risposta la offre lui, più o meno a tre quarti.
“Oggi comincio a tenere un diario per annotare cose che a me paiono straordinarie ma che avvengono a un ritmo tanto regolare che debbo crederle normali, in un paese come il nostro”, ha scritto Vittorio Gorresio in una pagina di un suo libro, pubblicato oltre sessant’anni or sono. Gorresio per me è sempre stato un modello di giornalismo e non s’immagina fino a che punto questo suo impegno diaristico sia stato di aiuto e consolazione. A proposito di cose eccezionali entrate a far parte della normalità, dai miei appunti di allora viene fuori un’euforia festosa che contagiò inspiegabilmente la tarda età berlusconiana.
Anche per le stagioni precedenti, Ceccarelli mette insieme aneddoti e notizie e ritagli nei quali ci ritroviamo ma che avevamo perso per strada. Leggerli ci fa ripensare a quand’eravamo più giovani e ai tempi strani (ma i tempi sono tutti strani) per cui siamo passati. Per gli studiosi di domani, Ceccarelli ha preparato molti pezzi del puzzle che dovranno comporre, se vorranno capire il “berlusconismo”.
Filippo Ceccarelli, B. Una vita troppo, Milano, Feltrinelli, 2024, pp. 640.