Non avrei mai letto questo libro, se non fossi inciampato, per caso, in un riferimento polemico di Giacomo Devoto al “liberismo” di Graziadio Ascoli. Ebreo goriziano, Ascoli è stato uno dei massimi, forse il massimo, linguista italiano. Il cuore di questo libro è il Proemio all’Archivio glottologico italiano, scritto nel 1872 e pubblicato nel 1873 Ai tempi dell’unità, gli italiani non parlavano l’italiano, prevalevano i dialetti, lo Stato nazionale, a dispetto delle sue glorie letterarie, sembrava mancare del primo attributo “nazionale”: la lingua.
E’ allora che il massimo scrittore della nostra lingua, Alessandro Manzoni, propone una sorta di “unificazione letteraria” dall’alto, sul modello francese, avendo per modello la parlata dei fiorentini colti.
Ascoli risponde con questo saggio. La strada che suggerisce è molto diverso. L’unità della lingua della lingua non può essere “imposta” ma deriverà automaticamente dall’attività di una cultura vivace e operosa, dal lavoro degli “operaj dell’intelligenza” dediti a una civiltà fondata sulla scienza. Nel contempo, Ascoli difende il “bilinguismo di tutti gli italiani”. Le “fermissime rotaje dell’unico uso” possono “intorpidire il pensiero e far che lo spontaneo rasenti l’automatico” .
Per Ascoli, per “fare l’italiano” bisogna superare il “doppio inciampo” tradizionale della nostra società, ovvero “la scarsa densità della cultura e l’eccessiva preoccupazione della forma”. La lingua dei dotti sarebbe diventata patrimonio comune, ma col tempo e se i dotti avessero accettato che la parte loro consisteva nel far bene il proprio mestiere, non nel proporre interventi “normativi” sulla lingua.
Persino, dirà poi Ascoli in una lettera sullo stile, pensare che l’italiano debba essere fatto a immagine di quello del Manzoni significa prendere una scorciatoia intellettuale: “l’arte del Manzoni riassume se stessa in una facilità illusoria, non manifestando se non l’esito ultimo e limpidissimo di un’operazione infinitamente complicata. E’ la luce bianca, e resulta perciò dal sovrapporsi di tutti i colori”. La “lucidezza assoluta” di Manzoni è il frutto di un processo lungo e complesso:
Un’idea, per quanto involuta e complicata, che gli sorgesse dai più reconditi strati del pensabile, egli la costringeva a svolgersi e rivolgersi nella mente sua, per un’elaborazione lunghissima; sin che si dovesse riversare, limpida e non punto appariscente, in modeste e rimesse parole, le quali sembravano un molto semplice portato del senso comune. Era, nello spirito di lui solo, una esultanza analoga a quella dell’esperienza dei secoli, che sinteticamente si riversi in un dizione popolare o in un proverbio.
Decidete voi se si tratta di una critica di rara perfidia o del più lusinghiero dei complimenti.
Quella di Ascoli è la difesa di una lingua che rampolla spontaneamente nelle spire della società, bottom up, perché anche “il vocabolario dell’officina” subisce “il naturale o razionale suo processo di selezione e di consenso”.
Questioni complesse, fuori dalla portata di chi linguista non è, quanto affascinanti.
Graziadio Isaia Ascoli, Scritti sulla questione della lingua, a cura di Corrado Grassi, Torino, Einaudi, 2008, pp. 156