Guardi una scultura e vedi la mano dell’artista. Raramente ti capita di pensare che il mastodontico lavoro che ci sta dietro, non troppo diversamente che sfornare brioche la mattina, scrivere libri o portare la frutta sulle bancarelle del mercato, non sarebbe possibile senza l’opera di tante altre mani. Lo scultore è visibile, il resto si cela alla vista. Fare scultura Gio' Pomodoro, gli scalpellini e il paesaggio, a cura di Emilio Mazza e Marco Maggioli, è un bel viaggio dentro quel che resta all’ombra dell’artista.
Il cuore del libro sono otto scritti di Pomodoro, originati da occasioni molto diverse (due sono lettere, l’ultimo è la trascrizione di un intervento video, uno è un articolo di giornale che però riflette appunti preparati per un tour di conferenze in Svizzera, ecc). Affrontano un tema specifico ma anche una questione di carattere più generale. Il tema specifico è il rapporto fra lo scultore e gli scalpellini delle Alpi Apuane e della Versilia: e quindi il sottotitolo, gli scalpellini e quel particolare paesaggio che è almeno in parte un esito anche del loro lavoro e della presenza delle cave. Il tema generale è invece il rapporto fra l’artista e figure che l’artista non sono, ma il cui lavoro finisce per entrare nel lavoro dell’artista. E dunque il titolo: che cosa significa “fare scultura”, e soprattutto chi la fa.
Scrive Emilio Mazza: «Gio’ Pomodoro è uno scultore. Ma non ha soltanto scolpito e disegnato: ha anche scritto e parlato». Mentre è abbastanza scontato che uno scrittore non sappia scolpire, non lo è affatto che uno scultore sappia scrivere. E invece la prosa di Pomodoro è assieme sia chiarissima che brillante. Ai contributi di Pomodoro seguono articoli di Bruto Pomodoro, Marco Meneguzzo, Emilio Mazza, Leonardo Capano, Maurizio Gomez Seito, Michael Jakob ed Elena Dell’Agnese.
Nel saggio di Marco Meneguzzo, si parla della radice sentimentale e di quella intellettuale (o meglio, precisa poi Meneguzzo, ideologica) da cui si dipanano le riflessioni di Pomodoro. L’aggettivo ideologica s’aggancia alla frase che Pomodoro mette a esergo del primo capitolo, il più complesso e strutturato, l’ “Omaggio ai maestri scalpellini di Versilia”. E’ una citazione dall’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Friedrich Engels: «civilizzazione: periodo nel quale l’uomo impara l’elaborazione di prodotti artificiali, servendosi di prodotti della natura come materia prima, per mezzo dell’industria propriamente detta o dell’arte».
Meneguzzo sostiene fra le righe che il riferimento (non è l’unico) lascia un po’ perplessi, che Pomodoro cita Gramsci ed Engels (che era poi quello che in quegli anni leggevano tutti, in Italia, non solo gli scultori) ma quel che ha in mente si avvicina a una visione non troppo distante da molti di quegli autori che Marx ed Engels avrebbero svillaneggiato come “socialisti utopisti”. Che pensavano che gli artigiani dovessero autoeducarsi, gli operai specializzarsi e che in generale fosse attraverso l’istruzione che gli uomini del popolo potevano venire «emancipati attraverso la propria sapienza».
Forse in alcune pagine di Pomodoro, da cui traspare un po’ di simpatia per il sistema delle gilde e delle corporazioni, ripensate come elementi di tutela del patrimonio di conoscenze in questo caso degli scalpellini ma più in generale dei lavori artigianali, c’è qualcosa che viene da Marx e Engels. Nell’Ideologia tedesca, Marx ed Engels sostengono che nelle gilde la divisione del lavoro non era granché sviluppata, che in esse «ogni lavoratore doveva essere abile in tutto un ciclo di lavoro» e che la rarefazione degli scambi commerciali faceva sì che in quel contesto il lavoratore continuasse a somigliare al lavoratore che lavora per la mera sussistenza e pertanto potesse avere un interesse per il suo lavoro che «poteva elevarsi fino a un certo, limitato, senso artistico». Però, chiosano i nostri due, «ogni artigiano medievale era interamente preso dal suo lavoro, aveva con esso un rapporto di soddisfatto asservimento». Non si può avere tutto. Nel Socialismo dall’utopia alla scienza di Engels, la prima fase della produzione industriale è proprio l’artigianato, «piccoli capi artigiani con pochi garzoni e apprendisti. Ogni operaio elabora il prodotto completamente».
Ma gli scalpellini non “elaborano il prodotto completamente”, come è evidente sia dagli scritti di Pomodoro che da una bella citazione di Cascella che riprende Leonardo Capano nel suo saggio. Non lo fanno anche perché non hanno l’individualità “autoriale” tipica dell’artista. Se lo scalpellino «mangia più pietra» dello scultore, in «un blocco di marmo al centro di uno studio» c’è tanta «fatica collettiva». Una fatica che travalica non solo le singole storie individuali ma un po’ anche i tempi: Pomodoro parla dei «gesti sedimentati degli scalpellini», ritrovandoci una forma di conoscenza di tipo particolare. Un saper fare che viene dall’esperienza, dalla bottega, ma anche dall’aver guardato lavorare tuo padre e tuo nonno e aver colto sicuramente la loro fatica e sudore, ma anche il senso del colpo di scalpello, per citare il titolo del saggio di Capano, ben prima di aver imparato a ricomporne un senso con le parole.
E’ forse proprio per questo che Pomodoro riconduce, come ricorda Emilio Mazza, il suo rapporto con gli scalpellini a tre “tipi”. Lo scalpellino è costruttore, è il guardiano dalla materia, quello che sa fare cose che non necessariamente l’artista sa fare. Per questo è altro da sé di Pomodoro, è un «compagno di lavoro». Ma è anche giudice-critico («conosce intimamente l’opera»… ovvero «la lingua che ha contribuito a formare»). Il riferimento alla lingua è interessante e ripetuto: lo scalpellino conosce «molti linguaggi», nei quali riesce a “tradurre” anche quello dello scultore. E le lingue non si conoscono quando uno ha in casa la grammatica spagnola o inglese e la prende in mano per leggerla tutte le sere prima di andare a dormire. Le conoscenze degli scalpellini sono così intimamente loro che fanno sì che non siano solo “utili” all’artista per fare questa o quella cosa, ma che entrino in dialogo con lui, che abbiano la capacità di giudicare e magari correggere quel che fa, essendo quanto di più diverso da lui e perciò necessariamente relegati nella sua ombra.
Nel suo testo, Capano mette assieme Topolino Scalpellino da Settignano, che seleziona blocchi di marmo per Michelangelo ma poi da questi viene deriso quando anziché fare il suo gioca non allo scalpellino ma allo scultore, e Topolino Canova, figlio di scalpellino nella storia come nel fumetto e nell’uno come nell’altro caso poi artefice di capolavori.
La storia tende a essere storia degli uomini illustri e la storia degli artefatti tende a presupporre il completo controllo della “cosa” creata da parte del creatore. Il che funziona benissimo per un fumetto ma dispiace a Pomodoro, per cui la scultura è come un film di cui i titoli di coda dovrebbero scorrere per minuti e minuti, anziché ridursi a una sintesi brutale tipo: l’ultimo film di Martin Scorsese. Ma che vada così, è abbastanza inevitabile. Forse potremmo dire che scultore si dice più facilmente al singolare, scalpellino meno: anche perché da una parte prevale il senso della creatività, della creazione, del nuovo, dall’altra c’è una «inestricabile foresta di azioni e di gesti ammucchiati giorno dopo giorno» (questo è ancora Pomodoro).
Anche chi come il sottoscritto non ha mai pensato granché alle sculture, leggendo questo libro si trova a pensare come neanche l’opera d’arte, quella cosa che più di tutte dovrebbe essere figlia del genio solitario, è disgiungibile da fitte trame di cooperazione. Ignote a chiunque non ci lavori e proprio per questo così sovente trascurate e dimenticate, talvolta forse strumentalizzate.
Fare scultura. Gio' Pomodoro, gli scalpellini e il paesaggio, a cura di Marco Maggioli e Emilio Mazza, Milano, ExCogita, 2023, pp. 188