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“Poche cose mi hanno dato piacere nella vita quanto ascoltare jazz”. Philip Larkin non pensava di “essere granché originale in questo: per la generazione arrivata all’adolescenza tra le due guerre il jazz era l’unica eccitazione privata che la gioventù sembrasse richiedere”. Larkin, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita (come ha ricordato Claudio Giunta con un articolo magnifico sul Foglio), è fra i grandi poeti del Novecento e scrisse per anni recensioni di jazz per il Daily Telegraph. Le riunì in questo All What Jazz, che oggi si legge come un diario di impressioni sull’evoluzione di tutto un genere musicale. E’ un libro intriso di memoria e di nostalgia, per il jazz “classico”.
Larkin detesta il modernismo: “Non mi piacciono queste cose [Charlie Parker o Picasso o Pound] non perché siano nuove, ma perché rappresentano un modo irresponsabile di sfruttare la tecnica in contraddizione con la vita umana come la conosciamo”. Non aiutano “né a godere né a sopportare”. I musicisti jazz, come probabilmente i romanzieri e i poeti e ovviamente gli scienziati sociali, si dividono per Larkin fra i Wells (nel senso di H.G. Wells) e i Gibbon (nel senso di Edward Gibbon): “i Wells vogliono estendere i termini, allungare i punti, vedere il cambiamento delle cose. I Gibbon vogliono che le parole mantengano il loro significato, che siano definite, che le cose restino le stesse”.
Di giudizi controversi il libro è zeppo, tutti si spiegano alla luce di pregiudizi che nell’Introduzione l’autore dichiara senza problemi. Dietro, sta la potenza del ricordo del jazz ascoltato da giovane e che per questo più ha lasciato il segno. Ci sono commenti su Miles Davis o Charlie Parker che oggi ci riescono quasi incomprensibili. Di Art Tatum, di cui pure riconosce il talento, Larkin scrive che “è una specie di sarto che, avendo visto quanto è bello un fronzolo, fa un vestito mettendocene 99”.
Al contrario, Duke Ellington dimostra sempre “la sua capacità di produrre borse di seta su misura”. Innanzi al Duca anche Larkin si toglieva tanto di cappello.
Caustico, abrasivo, ma anche pieno della gioia particolare che solo la musica più dare, questo è un libro di uno dei più grandi poeti del Novecento che non si limita a raccontarci dei dischi, ma descrive uno dei grandi fenomeni artistici del Novecento. Ogni parola, anche la più velenosa, è una meraviglia.
Philip Larkin, All What Jazz. A Record Diary 1961-68, London, Faber and Faber, 1970, pp. 272