L’economia di mercato non risulta “naturale” alla maggior parte delle persone. Il genere umano si è evoluto in ambienti molto diversi dalle società nelle quali noi viviamo oggi. Se abbiamo sempre, in qualche modo, scambiato cose gli uni con gli altri, il commercio fra estranei è una realtà relativamente recente, inimmaginabile prima del Neolitico. Il nostro cervello non si è ancora davvero adattato a questa novità. L’istinto ci porta a vedere l'altro come una minaccia potenziale, dobbiamo sforzarci per considerarlo come una potenziale controparte.
Nei gruppi di cacciatori e raccoglitori, il bottino di caccia e, più in generale, le risorse per sostenere la vita degli individui venivano “distribuite” sulla base di un qualche criterio (per esempio, il contributo dato nell’avere la meglio su una bestia feroce). Di qui la tendenza, inestirpabile, a pensare che le risorse anche in un’economia di mercato siano “distribuite” da qualcuno - e ad arrabbiarci se tale “distribuzione” non è conforme al criterio a noi congeniale. Esattamente come i nostri progenitori avevano bisogno di trasformare gli eventi naturali in dèi antropomorfi per dare un senso a inondazioni e slavine, lo stesso facciamo noi con l’economia.
Forse anche per questo, al di là del fatto che, banalmente, si tratta di storie interessanti da raccontare, uno scrittore inglese dell’Ottocento, Samuel Smiles, scrisse una serie di Lives of the Engineers, che culminavano con quelle di George e Robert Stephenson, l’inventore della locomotiva Rocket e suo figlio. Per George Bernard Shaw, Smiles era un “moderno Plutarco” il cui eroe era “l’astuto proletario”, l’uomo di umili origini che riusciva a farsi largo nella vita grazie alle sue capacità e che, facendo profitto, rimediava alle circostanze poco propizie in cui era venuto al mondo. Smiles era un uomo “di sinistra”, aveva partecipato all’agitazione cartista, ma questo non significa che immaginasse grandi schemi di riforma sociale. Il miglioramento delle condizioni di vita non solo doveva, ma poteva, ce n’era abbondante testimonianza, venire dall’applicazione, dall’impegno, dal risparmio. Dal prendere sul serio quelle “virtù borghesi” che costituiscono il centro del primo libro della trilogia di Deirdre N. McCloskey, che esce questa settimana in Italia per la Silvio Berlusconi Editore. Smiles aveva ben chiaro ciò che generazioni di socialisti si sono rifiutati di capire: i poveri vogliono diventare ricchi, non fare le rivoluzioni. I suoi libri sono racconti di come questo è materialmente avvenuto, di come le vicende individuali di alcuni inventori e, diremmo oggi, imprenditori hanno fatto la differenza. E per questo indirettamente contribuirono allora, molto più di trattati e pamphlet politici, a legittimare l’economia di mercato. Ad aprire gli occhi su come una moderna economia industriale, per quanto imperfetta, è l’ambiente più propizio per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone che abbiamo conosciuto.
Per questo sono tutt’oggi interessanti le storie di vita degli imprenditori. La creatività imprenditoriale è una risorsa scarsa, come tutte le cose nel mondo, ma è più abbondante di quanto si pensi. In qualche modo, ne sono testimonianza le circostanze nelle quali, fortunatamente, ci troviamo a vivere. L’abbondanza di beni e servizi a nostra disposizione, il fatto che il prezzo di molti di essi continui a scendere, il costante affacciarsi sul mercato di tante “novità” (anche se magari non così dirompenti come la locomotiva a vapore). Con l’annuncio dei dazi da parte della amministrazione americana, alcuni di noi hanno provato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica il fatto che oggi il commercio internazionale non è composto soltanto di merci che finiscono direttamente sugli scaffali del supermercato: ma che è soprattutto fatto di beni intermedi, di cose che servono a fare altre cose, di componenti che entrano poi nei prodotti che i consumatori acquistano. La maggior parte di noi comprende la produzione sulla base della sua esperienza col “fare” determinate cose: imbiancare una parete, infornare una torta, preparare un piatto di pasta. Siccome abbiamo la fortuna di trovare pasta e sughi bell’e pronti in negozio, tendiamo a pensare che “fare” le cose sia una cosa semplice - anzi, magari, diciamo così, una cosa molto più banale rispetto a “pensare” alti pensieri, dipingere un quadro o commentare gli eventi di politica internazionale. In realtà fare le cose non è facile per nulla e una delle magie della produzione di massa è che ciascuno di noi può comprare, magari per una manciata di euro, manufatti che sono l’esito del lavoro di centinaia di persone.
Gli imprenditori sono, in questi processi così complessi e aggrovigliati, talora le persone più visibili. Ma di solito questo avviene quando si affacciano sulla scena quando ottengono una carica in Confindustria, comprano una squadra di calcio, cominciano a rilasciare interviste su materie diversissime dai prodotti che realizzano. Ai consumatori giustamente interessano questi ultimi, non chi li ha realizzati. A parte che in provincia di Cuneo, c’era pochissimo interesse, ammesso che ce ne fosse, di sapere di preciso che faccia avesse il signor Ferrero. Eppure Nutella, Ferrero Rocher e ovetti Kinder hanno addolcito la vita di milioni e milioni di persone.
Bene ha fatto dunque Francesco Antonioli, a lungo giornalista del Sole 24 Ore, a dedicare questo libro alla figura di Giovanni Cottino. Cottino, che è mancato a 95 anni nel 2022, ha lasciato il suo patrimonio a una Fondazione, intitolata a lui e alla moglie, che in parte interviene a vantaggio di persone in stato di disagio e in parte fa una attività diversa, di sostegno a progetti tarati su una puntuale misurazione del loro “impatto sociale”. A questo scopo la Fondazione si è dotata di strumenti non banali, a cominciare da una business school ripensata attorno a tale questione. La donazione forse più nota è quella di un edificio al Politecnico di Torino, di cui Cottino era stato allievo: una scelta all’americana, un building intitolato al donor, ma pensato per consentire forme di didattica innovativa e sconfinamenti in territori tradizionalmente preclusi al Politecnico. Per Guido Saracco, che era Rettore del Politecnico al momento nel quale si strinse l’accordo per la donazione, “la collaborazione tra il nostro ateneo e la Fondazione Cottino rappresenta un esempio unico in Italia e significativo anche a livello internazionale di progettazione condivisa di spazi, programmi educativi e iniziative che potranno avere una forte ricaduta sul territorio”.
Il libro di Antonioli s’intitola Il maestro silenzioso perché Cottino non era particolarmente interessato a esibire la sua generosità. Né nelle sue forme istituzionali, che passavano e passano per la Fondazione, né in quelle private. E’ interessante come Antonioli associ spesso il sostantivo “generosità” o l’aggettivo “generoso” a una serie di attività che non necessariamente ricondurremmo a un grande filantropo. L’ingegnere amava invitare a cena amici e collaboratori e questi ultimi li trascinava, una volta l’anno, a vedere il Gran Premio di Montecarlo, dove si era trasferito. Questi dettagli, che servono ad Antonioli per dire quanta “fame di vita” avesse Cottino, suggeriscono come l’essere generosi non sia una caratteristica che si svela solo nel momento in cui qualcuno si libera del proprio patrimonio a vantaggio della collettività. La generosità non è un attributo dell’uomo di mezzi, ma dell’uomo tout court, ed è tanto più probabile che questi, se ha mezzi, sia disponibile a impiegarli per imprese collettive quanto più è liberale nell’uso che ne fa con gli amici. Molto spesso la filantropia viene fatta rientrare in categorie ideologiche. Di qui, l’uso del verbo “restituire”. Il grande imprenditore che “restituisce” qualcosa al territorio in cui è cresciuto. Barack Obama ci cucinò un famoso discorso, nel quale spiegava che “you didn’t build that”. Il singolo uomo d’affari non fa mai nulla da solo, inevitabilmente contrae dei debiti con altri che gli hanno preparato la strada, se non ci fosse stato il servizio postale col cavolo che Jeff Bezos poteva inventarsi Amazon e non c’è azienda privata che non faccia transitare le merci che vende su strade e autostrade di proprietà pubblica.
Sotto alcuni aspetti, è vero. Anche gli innovatori più straordinari non fanno che aggiungere un quadratino a una trapunta patchwork su cui si lavora da generazioni. L’innovazione è un’impresa collettiva e cumulativa, alla quale si contribuisce aggiungendo qualcosa all’opera altrui. Però quest’opera altrui non è necessariamente qualcosa cui sia stato dato impulso dai governi, anzi. Elon Musk è l’ultimo esponente di una genìa che comincia con Thomas Edison, non con Theodore Roosevelt. Se è stato un insegnante (come una volta capitava e come magari, speriamo, avviene anche oggi) a ispirare uno studente a dedicarsi alle scienze, e a provare a sviluppare un pensiero nuovo, non è alla scuola pubblica che dobbiamo dire grazie: ma a quel docente lì. La storia non è solo una collezione di vite straordinarie, ma nella vita di ciascuno di noi sono gli incontri, i confronti, gli scontri con altre persone ciò che conta.
Cottino, che pure ha voluto “restituire” (il verbo lo usano sia lui che il suo biografo) al territorio in cui era cresciuto e aveva prosperato, in realtà non ha “restituito”. Ha donato. A maggior ragione, questo lo si può dire perché gran parte delle attività della Fondazione che gli è intitolata riguardano i giovani: esseri umani nati dopo che la sua carriera imprenditoriale s’era già conclusa, ai quali non poteva tecnicamente toglier nulla per poi ridargliela indietro. Il verbo “donare” ogni tanto viene usato con ritrosia, perché nella nostra cultura ricorda l’elemosina sul sagrato della chiesa. E in effetti Fondazioni come quella creata da Cottino e oggi presieduta da sua nipote, Cristina Di Bari, non si accontentano di “donare”: s’impegnano affinché la donazione abbia un effetto duraturo nel tempo, non si limiti ad alleviare uno stato di disagio, consenta di uscirne. Angelo Miglietta, nel saggio (tanto ispirato quanto affettuoso) che introduce e presenta il lavoro di Antonioli, parla di “fare bene il Bene”. L’obiettivo di fare del bene non esime dal farlo bene, dall’impegnare cioè con criterio e rigore le risorse che si hanno a disposizione. Si vede qui la differenza fra una Fondazione il cui primo motore era un imprenditore, un self made man come nel caso di Cottino (che aveva lavorato per la Fiat e la Solvay prima di mettersi in proprio), e realtà che invece attingono alle risorse messe a disposizione dai contribuenti. Lo spirito imprenditoriale non ha terminato il proprio compito col creare ricchezza, entra in campo anche per ragionare su come distribuirla.
C’è però un’altra considerazione da fare, pensando ai Cottino ma anche agli eroi di Samuel Smiles. Che sarebbe cioè un errore pensare che il loro “fare il Bene” sia limitato a quella parte della vita in cui quello era il loro obiettivo. C’è la parte precedente, improntata alla ricerca del profitto, valore all’apparenza il più arido. E tuttavia Cottino di mestiere produceva componenti per elettrodomestici, costituì’ la sua Plaset (acronomico di “Plastiche settentrionali”) nel 1975, in un’Italia con molti problemi ma nella quale inventarsi una nuova impresa era più facile di quanto non sia oggi. E’ ancora un imprenditore del tipo che fa le riunioni coi collaboratori più stretti in piemontese, ma guarda oltre frontiera. Realizza pompe per gli scarichi di lavatrici e lavastoviglie, componenti essenziali per due elettrodomestici che sono stati (per citare Karl Popper) il più efficace strumento di emancipazione femminile nella storia. Poi espande l’attività ai componenti per climatizzatori e sistemi di riscaldamento, molto più tardi anche al rame smaltato, conduttore di grande importanza in tutte le applicazioni elettriche. Antonioli insiste molto sulla sua attenzione ai collaboratori, ovvero sull’idea che il primo requisito per gestire un’impresa di successo sia avere a disposizione le persone giuste. Detta così sembrerebbe una cosa banale, ma mentre sul principio siamo tutti d'accordo, distinguere fra le persone giuste e quelle sbagliate non è così facile. Ci vuole un talento particolare, di cui Cottino evidentemente disponeva.
Il successo e la nascita della Fondazione dipendono anche dal fatto che egli seppe vendere al momento giusto, cosa non facilissima per un imprenditore, che tende a essere innamorato del suo progetto e digerisce male il pensiero che altri se ne prendano cura. Elio Marioni, concorrente e partner da cui Cottino acquisì un brevetto risultato poi molto importante, lo definisce “astuto”. “L’astuzia è qualcosa di più dell’intelligenza.L’ingegnere riusciva sempre a convincere, sapeva utilizzare dati e parole nel modo giusto, guardava le situazioni in maniera molto aperta e molto… proficua”. L’imprenditore, anche se ingegnere, non è solo un ingegnere: la sua è una intelligenza combinatoria e posizionale, il suo successo dipende dal sapere intuire le circostanze in anticipo, dal saper “speculare” - osservare da un’altura, per cogliere meglio ciò che sta sotto.
La filantropia è un’attività nobile e spesso anche necessaria, quando gli Stati sociali non riescono a mantenere le proprie promesse. Per Angelo Miglietta, Cottino fu “un intelligente costruttore di bene nell’amore per il prossimo”. Ma tale “carpenteria del bene” non è confinata all’attività filantropica. In questa intervista, Marioni spiega bene la sua attività di produttore di componenti per elettrodomestici, tutta nel segno essenzialmente del migliorare l’efficienza degli elettrodomestici stessi. Usare meno energia e meno acqua. Quanto bene hanno fatto e fanno, delle lavatrici che funzionano, a ciascuno di noi? Quanto tempo liberano a nostro vantaggio? Quante altre attività riusciamo a intraprendere, grazie a esse?
Anche nel ripercorrere le vite dei grandi imprenditori (non è, questo, il caso del bel libro di Antonioli), si rischia spesso di finire vittima dei bias cognitivi di cui dicevamo poc’anzi. Si cerca la mano visibile del “distributore” di risorse, l’imprenditore che dona o regala, oppure se ne scolpisce la storia attraverso una catena di successi personali: fatturati che crescono, mercati che si conquistano, e così via di statistica in statistica. Dietro le statistiche ci sono le persone, le loro esigenze, i loro problemi (i nostri problemi) che le imprese riescono a risolvere. I loro profitti segnalano precisamente questo. Samuel Smiles offriva vite esemplari a una popolazione che già desiderava rimboccarsi le maniche. Questo è senz’altro importante, per dissipare i pregiudizi sull’attività imprenditoriale. Ma bisognerebbe superare anche i sensi di colpa che molti imprenditori finiscono per interiorizzare. A parte che nel business, lucroso ma di nicchia, delle rapine in banca, i profitti arrivano quando si dà alla gente qualcosa di cui ha bisogno. Questo è il primo “bene”, che il profitto che ci aiuta a far “bene”.
Francesco Antonioli, Il maestro silenzioso. Giovanni Cottino (1927-2022): l'imprenditore che ha saputo «restituire», Milano, GueriniNext, 2025, pp. 200.
Mingardi, negli USA non c'è il socialismo perché i poveri si considerano milionari in stato di temporanea difficoltà (non ci crederà ma lo ha detto Steinbeck😉)