Per il centocinquantenario di Luigi Einaudi, le iniziative sono molte. Due sono i comitati nazionali che si occupano di festeggiare la ricorrenza (un po’ di competizione fa sempre bene). L’Istituto Bruno Leoni ha fatto una serie di Podcast che mi permetto di consigliare (l’oste, va da sé, parla bene del suo vino). Aragno manda in libreria questa raccolta di scritti einaudiani usciti sulla Rivoluzione liberale, con una bella prefazione di Francesco Perfetti. Sono dieci articoli di Einaudi, di cui uno celeberrimo (“La bellezza della lotta”, prefazione alla raccolta di scritti sulle lotte del lavoro pubblicata proprio da Gobetti), più un saggio di Piero Gobetti sul liberalismo einaudiano.
Sul rapporto fra i due, viene facile ricamare. A unirli c’è il Piemonte: a Torino Einaudi arriva all’università, Gobetti ci nasce ma i suoi sono di Andezeno, vicino a Chieri, oggi provincia di Torino, mentre Einaudi viene al mondo a Carrù, alle porte della Landa, e poi comprerà terre a Dogliani, costruendo di acquisto in acquisto i poderi dove si fa il Dolcetto che porta il suo nome. E a unirli ci sono il liberalismo e l’avventura dello scrivere e anche l’editoria: il figlio di Einaudi, Giulio, sarà in epoca repubblicana l’editore che il giovane Piero non poté essere, avendo lasciato questa terra all’età di venticinque anni. A dividerli una lettura diversa di fenomeni come il Risorgimento e il bolscevismo. Einaudi visse a lungo e poté rivedere e mettere a punto le sue posizioni, Gobetti no.
Piero Gobetti fu un imprenditore delle idee brillantissimo e un editore geniale: col fiuto di scoprire Eugenio Montale e il gusto di pubblicare Sturzo e Amendola, Salvemini e Malaparte. Gobetti “recluta” Einaudi, da principio per Energie nove, quando questi ha quarantacinque anni, e da una quindicina è il primo violino dell’orchestra diretta da Luigi Albertini. Lui, invece, Gobetti, di anni ne ha diciotto. “Forse”, scrive Francesco Perfetti, Einaudi “era stato lusingato dalla venerazione dimostratagli da questo ragazzo, timido in apparenza, che, ancora studente liceale, aveva cominciato a frequentare con assiduità i suoi corsi universitari”.
Tre anni dopo, Einaudi appare già sul primo numero della Rivoluzione liberale, il 12 febbraio 1922, con un articolo “posizionato subito dopo il Manifesto programmatico e prima del Taccuino firmato da Giuseppe Prezzolini”. Il 23 aprile uscirà invece il saggio di Gobetti sul liberalismo di Einaudi.
L’economista piemontese concludeva così la Prefazione alla sua prima raccolta di Prediche:
Se le pagine qui unite hanno un significato, esso è forse il seguente: che la scienza economica è subordinata alla legge morale e che nessun contrasto vi può essere fra quanto l’interesse lungi veggente consiglia agli uomini e quanto ad essi ordina la coscienza del proprio dovere verso le generazioni venture.
Non lo abbandonò mai la convinzione che “sono le idee che fanno muovere gli uomini e che fanno servire le cose materiali ai fini che l’uomo si propone”.
Questo il ritratto che ne fa Gobetti:
L’uomo, appena conosciuto, ispira solida fiducia. Spoglio di qualità decorative, libero dagli atteggiamenti falsi - enfatici o conciliativi - che la società convenzionale impone a chi se ne lasci dominare. Esercita, senza teorizzarla, una morale di austerità antica di elementare semplicità. La sua visione etica comincia secondo un processo quasi primitivo, organizzato intorno all’affermazione dei valori della famiglia, intesa come centro di uomini di carattere e di indefessa operosità, si prolunga nella patria organo di valori spirituali e di azione economica. Più che una teoria l’Einaudi ha un sentimento della patria, la vede come esercizio di vita degli individui: attraverso la tradizione essa gli attesta la continuità dei nostri sforzi, il permanere della personalità dei singoli, la coerenza vitale degli affetti.
Per un ragazzo degli anni Venti, quando l’Europa vibra di ben più stridule note politiche, è una visione “ristretta”. E tuttavia Gobetti la mette a fuoco bene, comprende che la “fede liberistica” einaudiana “modestamente preferisce rimanere la descrizione o l’autobiografia di un’esperienza psicologica che irrigidirsi in una teoria” ed è “schiettamente antisocialista e antidemagogica”.
L’economista era “lettore appassionato, quasi monomaniaco di libri inglesi” e dunque
il centro fecondo del pensiero einaudiano che gli permette di superare agevolmente gli schematismi teorici consiste in un intimo scetticismo verso tutte le formule (anche le proprie) e in fiducia assoluta nella inesauribile attività degli uomini.
Per il giovane amico, Einaudi scrisse saggi che si leggono con piacere, a cent’anni di distanza, a patto di non intristirsi per l’eterno ripresentarsi degli stessi sofismi economici. Prendiamo quello che apre la raccolta e che inaugurò La Rivoluzione liberale, “Esiste una economia italiana?”. Andrebbe riletto e ristampato ogni volta che il ritornello dell’italianità torna nella discussione del futuro di questa o quell’impresa, o addirittura si pensa di dare prova di patriottismo “riaprendo in tutt’Italia le miniere”, attività chiaramente antieconomica nel nostro Paese. Che diamine significa, si chiede Einaudi, parlare di “banca italiana” e in che senso tale banca sarebbe diversa da una “banca senza aggettivi” (lo stesso si applica ad aviolinee, reti telefoniche e, ovviamente, miniere)?
Contro i nazionalisti economici di tutti i tempi e di tutti i partiti, il futuro Presidente ammoniva che “l’aggettivo 'italiano' applicato a 'banca', ad 'industria', ad 'economia' ha un significato laudativo solo se equivale ad 'economico'” e suggeriva che “una banca è italiana in quanto guadagna, antiitaliana (…) in quanto perde”.
Guadagnare è sinonimo di incoraggiare industrie sane, vitali, rigogliose; perdere è sinonimo di incoraggiare progetti mal combinati, fantastici, improduttivi. Guadagnare vuol dire rafforzare il paese, arricchirlo, renderlo atto a vincere nella concorrenza internazionale. Perdere vuol dire indirizzare il lavoro in impieghi in cui esso è male rimunerato, in cui si producono cose non desiderate dai consumatori; vuol dire immiserire il paese e renderlo facilmente servo delle più rigogliose economie straniere.
La definizione ora data dall’aggettivo italiano dimostra che probabilmente hanno ragione quei trattatisti i quali amano poco le aggiunte “nazionale” o “politica” o “italiana” al sostantivo “Economia”. L’aggettivo non aggiunge nulla al concetto e serve solo a confondere le idee, perché fa nascere l’impressione negli inesperti che si debba incoraggiare un’economia od una banca “nazionale” in contrapposizione all’economia od alla banca “semplice”: mentre quelle solo banche ed economia sono nazionali od italiane le quali sono vere e semplici banche ed economie; ossia banche ed economie, le quali adempiono semplicemente al loro fine proprio bancario od economico, senza l’appiccicatura di nessun altro fine extra-vagante.
Un saggio del 1923 (“Parlamento e rappresentanza di interessi”) è invece un limpido manifesto dell’anti-corporativismo di Einaudi, che egli si porterà appresso fino alla Costituente e oltre. La domanda da cui parte è se la legislazione economica debba “essere messa in mano agli interessati”. La risposta è che gli interessi rilevanti andrebbero sentiti e consultati, ma a legiferare deve essere un Parlamento che rappresenta individui, non gruppi uniti da un preteso interesse comune.
I cattolici si sono fatti paladini della rappresentanza professionale; i socialisti vogliono attribuire ai consigli del lavoro una potestà legislativa e non già soltanto consultiva; gli industriali pretenderebbero che una tariffa doganale sia buona quando tutte le industrie interessate la propugnano. Se ne accontentano; gli impiegati vorrebbero che i regolamenti del loro lavoro e dei loro stipendi fossero discussi e deliberati dalla loro classe d’accordo con i ministri ed i capi dei dicasteri ed uffici. Ognuna delle classi interessate tende a conquistare la prevalenza nel consesso deliberante; e la massima concezione che ogni classe fa è la sopportazione di una eguale rappresentanza alla classe direttamente con essa contendente.
Gli interessi raramente sono perfettamente allineati, pure fra persone e aziende che svolgono gli stessi affari: “Come si può affermare che la Confederazione generale dell’industria, che le Camere di Commercio, che il Segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia?” In quei gruppi dominano i “pochi che avevano appunto un forte interesse da far valere” ma non necessariamente gli interessi convergono. Nell’Italia di oggi che la “rappresentanza” degli interessi è faccenda ancora più frastagliata che in passato dovrebbe esser chiaro.
Il guaio è che privilegiando di volta in volta l’interesse più persuasivo, che in democrazia significa: con migliori argomenti elettorali, si finisce a dar credito a quanti “non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo, essenziale dello Stato difendere contro gli interessi presenti”. Gli interessi futuri sono in qualche modo approssimati dall’interesse del contribuente e del consumatore, di cui infatti si parla il meno possibile.
Contro la “Corporazione” che “non sacrifica l’operaio all’imprenditore; né l’imprenditore all’operaio” perché “vuole riunire in una sintesi superiore le due rappresentanze finora ostili” Einaudi scrive “La bellezza della lotta”. Egli identifica un motivo ricorrente della politica nel tentativo “di ritrovare l’unità perduta attraverso i conflitti fra uomini e classi”. Non è certo, il futuro Presidente della Repubblica, un nemico del concetto di equilibrio ma egli ritiene che “è preferibile l’equilibrio ottenuto, attraverso discussioni ed a lotte, a quello imposto da una forza esteriore”.
L’equilibrio migliore è quello che è continuamente minacciato:
Instaurino pure, se ci riescono, operai ed imprenditori, il monopolio del lavoro e dell’impresa. Ciò che unicamente si nega è che lo stato sanzioni legalmente il monopolio medesimo, vietando ad altri di combatterlo e di distruggerlo, ove ad essi basti il coraggio. Il punto fermo è questo, non quello della convenienza del monopolio. Finché il monopolio, padronale od operaio, è libero, finché è lecito a chiunque di criticarlo e di tentare di abbatterlo, può esso recare qualche danno; ma è danno forse non rilevante e transitorio. La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, vantaggioso non solo agli industriali ed agli operai organizzati, ma anche a quelli non organizzati, non solo a quelli viventi oggi, ma anche a quelli che vivranno in avvenire, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo stato, se non che ponga per tutti le condizioni di farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui.
La fede di Einaudi nell’operosità ogni tanto sembra tratteggiare un ideale umano tanto ammirevole quanto raro fra gli uomini in carne e ossa, un po’ come lo scienziato popperianamente lieto che le sue ipotesi vengano “falsificate”:
La gioia del lavoro per l’operaio e della vittoria per l’imprenditore, sta anche nel pericolo di perdere le posizioni conquistate e nel piacere dello sforzo che si deve compiere per difenderle prima e per conquistare poi nuovo terreno. Tolgasi il pericolo, cessi il combattimento, e la gioia del vivere, del possedere, del lavorare diventa diversa da quella che è sembrata gioia vera agli uomini dalla rivoluzione francese in poi. Non che la “quiete” di chi non desidera nulla, fuorché godere quel che si possiede, non possa essere anche un ideale e che la sua attuazione non sia bella. Ho descritto in un capitolo di questo libro la vita felice del lazzarone napoletano nel meraviglioso secolo XVIII, che fu davvero l’età dell’oro della contentezza di vivere, del buon gusto, della tolleranza e dell’amabilità. Purtroppo la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita.
Nella sua Prefazione, Perfetti cita Giovanni Ansaldo per il quale “anche lo scolaro esercitò un influsso sul maestro; e vorremmo dire quasi di natura più sottile e profonda. Quel fervore candido di adolescente, quel fuoco scopritore di iti e di ideali nuovi, quel coraggio fresco e indomito nell’affrontare la ricerca della verità si fecero sentire sull’uomo maturo (…) lo aiutarono a superare le tentazioni dell’impigrimento e del conformismo che a quell’età insidiano tutti. Se noi leggiamo certi scritti di Einaudi tra il 1922 e il 1924 non vi troviamo il nome di Gobetti quasi mai ma la presenza spirituale di Gobetti sempre”. Se “pigro” è l’ultimo aggettivo che viene alla mente per un autore prolifico come Luigi Einaudi, quest’antologia parrebbe suffragare l’opinione di Ansaldo. Oppure è semplicemente vero quel che aggiunge Perfetti: “al di là delle divergenze speculative, i due erano davvero uniti idealmente in nome dell’amore per la libertà”.
Luigi Einaudi, Per la rivoluzione liberale, prefazione di Francesco Perfetti, Torino, Nino Aragno Editore, 2024, pp. 122.
Ricordiamo anche questa straordinaria (e troppo spesso volutamente dimenticata) dichiarazione di voto intesa come assunzione di responsabilità https://www.luigieinaudi.it/doc/perche-votero-per-la-monarchia/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR2nKDl01oC02p82q1da9t_pkr6BrKa4XdWdqvXFm0BVykGwRnWUQQn8ucs_aem_AWpRpt3BROVD3qtqtTxL_a3ONQefZggZZFPOYW5LCtPJQBb3kmxhSpcjNbTbJmCnykPvr0gSVj82uoDpimCOQm4e