Ogni tanto ci stupiamo di come un premier “tecnocratico” come Mario Draghi possa comunicare usando semplificazioni drastiche quanto quelle del più rozzo capo populista (pensiamo soltanto al tristemente indimenticabile l’alternativa è fra pace e condizionatori). Populismo e tecnocrazia sono considerati l’uno il contrario dell’altra. Il populismo è anzi ritenuto una reazione alla tecnocrazia: una reazione accolta con favore da alcuni e temuta da altri.
Questa visione conflittuale viene anche dal modo in cui populisti e tecnocrati parlano gli uni degli altri. Il populista si immagina come il bastione della resistenza contro la hybris dei burocrati. Il tecnocrate spera che la sua competenza possa arginare la confusione innescata dall’incompetenza degli ignoranti.
In un libro molto perspicace, Christopher J. Bickerton, professore di politica europea moderna a Cambridge, e Carlo Invernizzi Accetti, professore di teoria politica al City College di New York, suggeriscono che populismo e tecnocrazia non siano come acqua e olio. Per quanto netta appaia la differenza fra l’uno e l’altra, hanno molto in comune.
L'argomento di base di Bickerton e Invernizzi Accetti è duplice. Da un lato, essi sottolineano che nella retorica dei principali attori della politica contemporanea, le cruciali rivendicazioni di legittimità sia del populismo (la necessità di dare voce al "popolo", al di là delle formalità della democrazia liberale) che della tecnocrazia (il possesso di una qualche competenza come condicio sine qua non per governare) coesistono facilmente. Quindi “le differenze più salienti tra i principali protagonisti della scena politica contemporanea non risiedono nei loro profili ideologici sostanziali, ma piuttosto nel modo specifico in cui combinano tra loro tratti populisti e tecnocratici”.
L’altra tesi, più importante, è la seguente:
Anche se gli appelli alla volontà popolare e alla competenza sono spesso retoricamente puntati l'uno contro l'altro, c'è anche una profonda affinità tra loro, che consiste nel fatto che entrambi sono slegati dalla rappresentazione di valori e interessi specifici all'interno della società e quindi avanzano una concezione non mediata del bene comune, sotto forma sia di una concezione monolitica della “volontà popolare” sia della specifica concezione della “verità” politica a cui i tecnocrati sostengono di avere accesso. Questo pone sia il populismo che la tecnocrazia in contrasto con la concezione tradizionale della democrazia dei partiti come un sistema di “rivalità regolata” tra interessi sociali e valori in competizione che sono tutti in linea di principio ugualmente legittimi.
Banalizzando: i sostenitori della tecnocrazia ritengono che se la classe dirigente è selezionata sulla base del possesso di alcune competenze essa sarà in grado di produrre “soluzioni” ai problemi che la realtà ci sottopone con tanta generosità. Per i populisti, le “soluzioni” possono venire soltanto da persone finalmente oneste, che non siano state lordate dal contatto con i portatori d’interessi, come avviene ai membri della “casta”.
In un caso e nell’altro, abbiamo a che fare con una visione per la quale a ogni problema corrisponde una e una sola “soluzione”, non approcci che riflettono determinate preferenze e valori.
La “fine dell’ideologia” doveva coincidere con la liberazione dal fanatismo. Invece la politica post-ideologica è attraversata da tensioni fortissime. Bickerton e Invernizzi Accetti, con questo libro ricco e stimolante, provano a spiegare questo paradosso.
Christopher J. Bickerton and Carlo Invernizzi Accetti, Technopopulism.The New Logic of Democratic Politics, Oxford, Oxford University Press, 2021, pp. 256