Neil Titley è un attore di teatro, famoso per i suoi monologhi. Uno di questi, Work is the Curse of the Drinking Classes (il lavoro è la dannazione delle classi bevitrici), andato in scena 700 volte in cinque continenti, era un omaggio a Oscar Wilde, alla cui biografia si è appassionato col tempo. Specialmente, spiega nell’introduzione, quando la sempre terribile signora Thatcher riportò in auge quelle “virtù vittoriane” contro le quali Wilde aveva combattuto (di lui, Yeats scrisse che “era uno dei nostri duellanti settecenteschi nati nel secolo sbagliato. Sarebbe stato un buon capo in una carica di cavalleria, tanto coraggio aveva”). A furia di portare in giro il suo monologo, Titley compila una raccolta di bon mot wildiani ma poi comincia a sentire il bisogno di fare qualcosa di più. Vorrebbe scriverne una biografia, ma ce ne sono in giro parecchie. La reputazione di Wilde, sostiene Titley, è andata crescendo a dismisura da che si sono levati di torno gli ultimi suoi contemporanei.
A furia di leggere di e su Wilde, conteggia che Wilde entrò in relazione all’incirca con trecento delle figure più interessanti dell’epoca vittoriana, alcune tutt’oggi famosissime, altre meno. E, ovviamente, Wilde essendo Wilde, spesso aveva qualcosa di curioso, più spesso qualche cattiveria, da dire su ciascuno di loro. Titley si attiene alla prescrizione di Disraeli (“non leggere libri di storia, non leggere nient’altro che biografie, perché lì c’è la vita senza teoria”) e ammassa una gran mole di notizie, se possibile pettegole, su ognuno di loro.
Il risultato è questo libro folle e divertentissimo. Una collezione di biografie gossippare d’epoca, messe non in ordine alfabetico ma cronologico rispetto all’apparizione di ciascuno dei biografati nella vita di Wilde. Infatti, il primo è suo padre, Sir William Wilde, importante chirurgo oculistico, che ci viene presentato con una citazione di Oscar: “Qualsiasi cosa andasse bene ai nostri padri, per noi non è abbastanza”.
Di John Ruskin, il critico d’arte che Oscar considerava nientemeno che “il Platone d’Inghilterra”, apprendiamo che, per dimostrare ai suoi studenti di Oxford il valore del lavoro così manuale di cui era tanto persuaso, li arruolò volontari per costruire una strada da Oxford al villaggio di Ferry Hinksey (ora North Hinksey). Un lavoretto da tre chilometri. Dei “costruttori” fa parte anche Wilde, poco propenso al lavoro manuale e che ne dedurrà che non c’era molto di sensato nelle teorie del maestro (“non c’è nulla di necessariamente nobilitante nel lavoro manuale… l’uomo è fatto per qualcosa di meglio che disturbare la sporcizia”). Neppure i suoi colleghi dovevano essere granché versati nella carpenteria e la strada non venne mai completata. Un abitante di Ferry Hinksey commentò: “non penso che i giovani signori abbiano fatto poi molto danno”.
A ventun anni Wilde incontrò la “squisitamente graziosa” diciassettenne Florence Balcombe, cui fece un po’ la corte durante “l’anno più dolce di tutta la mia giovinezza”. La ragazza decide di non sposarlo (causando a Wilde un certo disappunto) e va invece in moglie al più maturo e “fiscalmente accorto” Bram (diminutivo di Abraham) Stoker, che oggi ricordiamo naturalmente come l’autore di Dracula (ebbe l’ispirazione per il romanzo, spiegò suo figlio, dopo un incubo notturno prodotto da un’indigestione di polpa di granchio). Stoker era un rigoroso burocrate che scriveva della critica teatrale nel tempo libero, fino a quando non s’imbatté nell’attore Henry Irving e si gettò tutto alle spalle per diventarne il manager, segretario, tesoriere, angelo custode e quant’altro. Nel mezzo della luna di miele, Florence si trovò attovagliata in una taverna di Harborne, periferia di Birmingham, ad assistere a un complicato incontro d’affari dove il novello sposo doveva assolutamente pervenire a qualche decisione imprescindibile per la carriera del suo idolo. Florence capì che sarebbe sempre arrivata seconda e la cosa non le fece granché piacere. Resistere in un matrimonio non felicissimo avrebbe però avuto il suo premio: Stoker muore nel 1912, il film Nosferatu è del 1922. La vedova non ne è informata e fa causa ai produttori, vince e ottiene la distruzione di tutte le copie (ne rimase solo una). Il primo adattamento autorizzato (e redditizio) fu il Dracula con Bela Lugosi.
Matrimonio ben più felice fu quello della regina Vittoria col principe Alberto. Vittoria era con le attrici Sarah Bernhardt e Lillie Langtry una delle tre donne che Wilde dichiarava di ammirare, aggiungo “avrei sposato una qualsiasi fra loro tre, con piacere”. L’aveva incontrata una volta a una festa organizzato dal Principe di Galles, “Bertie” (poco amato dalla mamma, che lo accusava di aver contribuito alla morte del padre, il quale aveva preso la febbre tifoide a Cambridge dove era andato per fare una ramanzina al figlio) e dichiarò subito che non l’avrebbe mai dimenticata. Vittoria regnò sessantatré anni, nei quali riuscì a stabilizzare la monarchia inglese preservandola da evoluzioni repubblicane tutt’altro che inimmaginabili: ebbe il merito di rafforzare il rispetto e anche l’affetto, come più di recente ha fatto Elisabetta II. Apprendiamo che Vittoria detestava Buckingham Palace perché perennemente infestato dai ratti. Anche per questo preferiva passare più tempo possibile a Balmoral, ristrutturato dal marito perché sembrasse uno Schloss in terra di Scozia. I reali vi si appassionarono: obbligavano la corte a vestirsi col kilt, Vittoria praticava le danze delle Highlands, Alberto studiava il gaelico.
Vittoria è una delle tre figure, insiste Titley, che definiscono tutta un’epoca (osservazione non proprio originalissima, tant’è che la chiamiamo età vittoriana). Le altre due sono il poeta Alfred Tennyson e William Gladstone. Tennyson condivideva con Wilde l’assoluta assenza di propensione per la musica (Wilde diceva di prediligere Wagner, perché le sue opere sono talmente rumorose che consentono di chiacchierare indisturbati tutto il tempo). Wilde lo omaggiò con l’epiteto di “Omero dell’isola di Wight”. Non riusciva a capire come il poeta laureato, così prodigo di temi mitologici, potesse fare una vita quanto più borghese.
Una sera Tennyson aveva ospite l’attore Henry Irving e, a cena finita, il suo maggiordomo riempì a entrambi due bicchieri di Porto e lasciò il decanter accanto al padrone di casa. Tutto preso dai suoi argomenti, Tennyson rabboccava generosamente il suo calice ma si dimenticava di fare lo stesso con quello di Irving. Chiacchiera dopo chiacchiera, si finì il primo decanter. Allora il maggiordomo ne portò un altro, riempì i bicchieri, e poi di nuovo l’ospite si trovò lasciato senza Porto, mentre il poeta continuava a parlare e bere, bere e parlare. La mattina dopo l’ospite si svegliò col padrone di casa che lo esaminava, chino sul suo letto come un medico su un malato. “Sta bene, signor Irving?” Sì, perché non dovrei. “Be’, insomma, non credevo fosse sua abitudine scolarsi due bottiglie di Porto tutte le sere”. Un’altra volta Tennyson era a spasso con il poliedrico artista William Morris. I due vedono in lontananza due biciclette che si avvicinano. Il poeta alza gli occhi al cielo: sicuramente i ciclisti si fermeranno e ci seccheranno per avere un autografo. Le bici filano dritto. Il poeta sibila: ma come hanno fatto a non vedermi!
Spero si sia capito lo spirito del libro, e perché è una bellezza da leggersi, un “Dagospia” storico dedicato a persone un po’ più interessanti della media dei paparazzati da rotocalco.
Sul terzo grande simbolo dell’età vittoriana, Gladstone, gli aneddoti si sprecano. Nel tempo libero amava tagliare alberi e far legna (“la foresta piange affinché il signor Gladstone possa farsi la sua sudata”), spesso faceva le ore piccole per braccare le prostitute londinesi ed esortarle a redimersi, era uno studioso dei classici che scrisse un mattone su Omero. Gladstone si pavoneggiava, ricorda Titley, della sua conoscenza del greco antico e una volta, facendo un giro della Grecia, diede una lezione in quella lingua dimentico del fatto che il greco moderno era assai differente. Il sindaco di Corfù lo ringraziò commosso per un discorso così splendido, dicendosi solo dispiaciuto che Gladstone lo avesse tenuto in inglese.
Gladstone visse molto a lungo pur dormendo poco più di quattro ore a notte ed ebbe sempre una salute eccellente. Si diceva che ciò dipendesse dalla sua abitudine di masticare ogni pezzo di cibo esattamente trentatré volte. Un politico conservatore, nel mentre il primo ministero liberale teneva una delle sue grandi orazioni, sussurrò a Lord Salisbury: “quanto vorrei avere il suo cervello”. “Puoi tenerti il suo cervello”, si sentì rispondere, “io vorrei avere il suo apparato digerente”.
Neil Titley, The Oscar Wilde World of Gossip. Subversive Encyclopaedia of Victorian Anecdote, Philadelphia (2011), Universal Exports of North America, 2023, pp. 686.