Molti anni fa, Massimo D’Alema sintetizzava così i problemi del Paese: “il guaio dell’Italia”, diceva il capo dei Diesse, “è che i giudici hanno ragione quando parlano di Berlusconi ma anche Berlusconi ha ragione quando parla dei giudici”. Qualcosa del genere si può sostenere della tensione fra cosiddetti mainstream media e populisti. I media tradizionali hanno senz’altro ragione nel sottolineare il pensiero brevilineo e sloganeggiante, se non la faciloneria, dei populisti. Ma anche i populisti non hanno torto nel sottolineare come gli organi d’informazione più blasonati offrano essi per primi una visione del mondo bidimensionale, ormai priva di ogni complessità e, al fondo, persino di rispetto per elettori e lettori facilmente liquidati come “deplorabili”.
Qualche giorno fa, i media mainstream hanno messo nel mirino la governatrice del Sud Dakota, Kristi Noem, in gioco per la posizione di vice presidente di Donald Trump. Si tende a pensare, infatti, che l’ex inquilino della Casa Bianca dovrà estrarre dal cilindro una donna. La candidata migliore è Tulsi Gabbard, peraltro democratica, una fra le pochissime persone con la testa sulle spalle quando si parli di politica internazionale (proprio per questo, è improbabile abbia chances). Noem è entrata nel parlamento del suo stato nel 2006, poi è andata al Congresso nel 2010, infine è diventata governatrice nel 2018: non una novellina, insomma. Ma, se la nomination in tandem con l’uomo nero Trump si avvicina, diventa irresistibile la tentazione di imbastire lo stesso tiro al piccione fatto all’epoca con Sarah Palin.
Stavolta, si è scelto di puntare su un tema a noi tutti, e giustamente, caro: i diritti degli animali. Nel libro, in uscita la settimana ventura, della Noem, sono state trovate delle “frasi shock”. Incollo qui sotto una delle ricostruzioni apparse su stampa/siti italiani, senza link perché sono tutte grosso modo equivalenti e, secondo antica prassi, tradotte alla bell’e meglio dalla stampa liberal americana:
Kristi Noem è riuscita a mettere in ombra (per qualche ora) persino Donald Trump. Le sue confessioni, svelate nel libro di prossima uscita “No Going Back: The Truth on What's Wrong with Politics and How We Move America Forward”, hanno acceso un faro sulla candidatura a Vicepresidente degli Stati Uniti d'America: “Ho ucciso il mio cane di 14 mesi perché indisciplinato”.
Sempre che Trump riesca nell'impresa di ritornare alla Casa Bianca, la governatrice del South Dakota è tra i papabili numero due. Il suo nome già circolava e ora scuote insistentemente gli animi dei democratici, di parte dei repubblicani, e probabilmente anche di una buona parte del resto del mondo: “Odiavo quel cane, non era possibile addestrarlo, era pericoloso, non valeva niente come cane da caccia, e in quel momento ho capito che dovevo abbatterlo”, ha scritto la 52enne parlando di Cricket.
La stessa fine del “cane indisciplinato” ha fatto la “capra puzzolente”, definita da Noem “brutta e cattiva, perché non era stata castrata e dall'odore disgustoso, muschiato, rancido”. Una capretta di famiglia che amava divertirsi “inseguendo” i suoi figli, che puntualmente cadevano a terra compromettendo i vestiti. Noem l'ha trascinata in una “cava di ghiaia” e le ha sparato. Moribonda, la governatrice avrebbe recuperato un'altra cartuccia nel furgone per finirla. Un racconto crudo, sconsigliato ai più sensibili, che probabilmente ne esalta personalità e leadership: forte e in grado di prendere decisioni drastiche all'occorrenza.
Scelte che cozzano con la tradizionale Presidential Pets, raramente violata, che vige alla Casa Bianca. Ne sono un esempio la presenza dei cani di Joe Biden, con Commander seriamente indisciplinato, degli Obama, la cagnolina Fala di Franklin Roosevelt, e si potrebbe andare a ritroso scomodando l'autore: George Washington. A differenza dei più, Trump è stato tra i pochi a non volere animali nella residenza ufficiale di Washington.
Da queste righe, l’impressione inevitabile è che Trump stia meditando di portare a Number One Observatory Circle una sadica per giunta insensibile al destino dei nostri amici a quattro zampe. Che differenza, signora mia, col cinofilo Biden.
Siccome avevo davanti un lungo viaggio aereo e poca voglia di dedicarmi a letture più impegnative, ho letto non il nuovo libro di Noem ma il precedente, Not My First Rodeo. Lessons from the Heartland, in copertina la governatrice a cavallo, le briglie nella mano sinistra, una bandiera americana nella destra. Che i leader politici sfornino libri a raffica, perlomeno a ogni appuntamento elettorale, è ormai la regola sia di qui che di là dell’Atlantico. Qualcuno sentiva veramente il bisogno dei ben nove tomi pubblicati da Matteo Renzi? O delle quattro, ambiziosissime, scampagnate nella teoria politica di Carlo Calenda? L’autobiografia di Giorgia Meloni fa un po’ storia a sé. Il già citato D’Alema scrisse un librettino sugoso, A Mosca l’ultima volta. Giulio Andreotti era un eccellente prosatore. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio: solo dire che quella di usare il libro (oggetto che ormai chiede al suo acquirente di tutto, fuorché d’essere letto) come strumento di promozione non è più una cosa solo americana. Ci sono stati, certo, di qui e di là dell’Atlantico (pensate ai Profiles in Courage di Kennedy o al Conscience of a Conservative di Goldwater) politici-scrittori non solo (anche, non solo) per vanità.
L’autobiografia di Noem non resterà nella storia, ma racconta una storia non priva d’interesse. Quella di una ragazza cresciuta in una fattoria, che gestisce una fattoria, che conosce a menadito tutti i mestieri connessi a una fattoria, che a un certo punto si butta in politica, avendo per primo obbiettivo quello di rappresentare tutti quelli che, come lei, hanno una fattoria. Tutto può sfuggire, da una lettura anche superficiale del libro, tranne che la governatrice si racconta prima come agricoltrice e poi come repubblicana, conservatrice, politica. “Alleviamo bestiame e coltiviamo granturco, soia, grano ed erba medica”.
Quanto agli animali, il libro ne è pieno. Da bambina, scrive la Noem, “ero famosa come una ragazza disposta ad accogliere qualsiasi animale domestico o abbandonato. Il più delle volte si trattava di procioni. Uno dei miei preferiti era Bandi, un procione che ho allevato fin da quando aveva pochi giorni di età e che ha fatto parte della nostra famiglia per più di dieci anni”. A suggerire una sensibilità e un'intelligenza non comuni, Noem racconta di avere “custodito un piccolo branco di gatti, di solito tra i venti e i trenta, che vivevano nel fienile”. E di aver, a un certo punto, stremato i genitori e aver conquistato la possibilità di avere anche un gatto di casa, che le dormisse ai piedi del letto.
I giornali si scrivono, si stampano e si vendono nelle città. Ma qualche vago ricordo dei racconti dei nostri nonni, ovvero qualche esperienza personale per modesta e rapida che sia stata, dovrebbe agevolare la comprensione di quanto sia diversa la vita con gli animali fra chi tiene in casa un cane, a scopo di compagnia, o un gatto, per doverosa adorazione, e chi vive con animali che sono un po’ fattori di produzione, un po’ compagni di strada, comunque parte costante della vita e non solo distrazione estemporanea. Nella prima autobiografia di Noem, le pagine più intense sono dedicate alla relazione col padre e alla sua prematura morte, ma subito dopo viene il racconto di come “i giorni più vivi della stagione” fossero sempre “quando Green Tag #35 partoriva”.
Per tutto l’anno Green 35, come la chiamavamo [in riferimento alla targhetta di identificazione applicata all’orecchio], non dava problemi, ma quando partoriva si trasformava in un diavolo: di solito le veniva la febbre e diventava irascibile. A quel punto il suo unico fine diventava quello di fare del male a chiunque si avvicinasse al suo vitello.
Green 35 era una buona madre, ma era intelligente, cattiva e impossibile da avvicinare furtivamente. Teneva sempre il suo vitello nella parte più distante del pascolo, di solito all’aperto, dove non c’era alcuna protezione per chiunque ardisse avvicinarsi. Per rendere le cose più interessanti, i suoi vitelli erano sempre forti e pronti a darsela a gambe
Risparmio a chi legge il racconto del tentativo di Noem e del fratello di contrassegnare il vitellino di Green 35. Ma a suo modo è una vicenda interessante e perfettamente funzionale allo scopo del libro: dimostrare che nella vita di una fattoria ci sono momenti che preparano alla leadership politica. La cosa fa un po’ sorridere il nostro elevato spirito urbano? Dai tempi di Cincinnato, quella dell’agricoltore-capo politico è una figura tutto fuorché rara. Se guardiamo solo ai Presidenti americani dell’ultimo secolo e mezzo (lasciando perdere quelli precedenti, che è più facile immaginare perché avessero della terra), sette, e non dei minori, sono cresciuti in una fattoria.
Dell’amore per gli animali, Noem scrive che “rispettare gli animali significa sforzarsi di comprenderli – le loro abitudini, i loro bisogni, e persino le loro paure”. Sarebbe bastato uno sguardo non dico al libro precedente, ma soltanto alla sua pagina Wikipedia, per contestualizzare la storia del cane, inserirla nelle vicende di una fattoria dove un quadrupede preso in canile che purtroppo attacca l’allevamento dei vicini e si comporta male con gli altri animali è un problema che viene risolto con le spicce. È curioso che lo stesso relativismo che ci porta (spesso, giustamente) a mostrare tolleranza con pratiche che ci riescono istintivamente ributtanti non si applichi agli agricoltori, specie se americani, specie se repubblicani.
Per tornare al libro, che non è memorabile ma non è neppure il memoir di un personaggio insipido. Noem racconta la sua vita in azienda (agricola) e soprattutto le abitudini e le passioni che le vengono dall’essere del South Dakota come una dimostrazione di quel “rugged individualism” che contrassegna gli americani della frontiera, spiriti liberali come pochi ve n’è stati. È possibile sorridere quando spiega di essere “una grande lettrice” e di aver divorato, da ragazzina, i libri di Laura Ingalls Wilder (la piccola casa nella prateria) e i western di Louis L’Amour (che Ronald Reagan amava al punto di tenerne anche nello spartano ranch di Santa Barbara). Ma essi sono parte di una cultura: una cultura diversa dalla nostra quanto quella dell’America delle coste, ma una cultura importante in quel Paese e che non è necessariamente l’espressione peggiore. Una cultura pragmatica, “del fare” si sarebbe detto in epoca berlusconiana, a suo modo strepitosamente ambientalista, certamente scettica rispetto ai poteri di qualsiasi istituzione.
Se dovessi descrivere le mie convinzioni politiche – e quelle di tutta la mia famiglia e della maggior parte dei miei vicini – in una sola parola, sarebbe: rispetto. Lo scopo del governo non è quello di risolvere tutti i problemi della vita. Né di risolvere ogni piccolo disaccordo tra le persone. Dovrebbe invece creare un’atmosfera in cui le persone possano risolvere i propri problemi, senza crearne altri per il prossimo.
Non so voi, ma se fossi sicuro che c’è, nelle liste che ci saranno sottoposte per le prossime elezioni europee, un solo candidato che possa definire con le stesse parole le proprie convinzioni politiche, dormirei meglio.
Se c’è una contraddizione, è come poi questi principi si sono declinati nella quotidianità politica che pure Noem racconta. La contraddizione non è sua ma in qualche modo inevitabile in qualsiasi sistema politico, soprattutto se federale come quello americano, nel quale la rappresentanza è incernierata nei territori e il rappresentante al Congresso (e ancor più il Senatore) deve operare in vista delle domande espresse dai luoghi che lo hanno espresso. Buona parte del racconto di Noem riguarda dunque i bill passati per il settore primario. L’idea di fondo è spesso quella della semplificazione (“Uno dei peggiori presupposti di Washington è la convinzione che i burocrati di alcune agenzie federali a Washington sappiano di più e si preoccupino di più dell’ambiente naturale rispetto alle persone che possiedono, coltivano e dipendono da quella terra per la loro stessa sopravvivenza”) ma ogni tanto anche quella della rivendicazione di privilegi, per quanto travestiti da diritti. La parte più spassosa del libro è la rivendicazione della possibilità di tornare a fare de fuochi d’artificio davanti al Monte Rushmore (quello coi faccioni di Washington, Jefferson, Lincoln e Teddy Roosevelt) durante la presidenza Trump: iniziativa di indubbio richiamo per il South Dakota.
Il libro è forse troppo rapido nel raccontare l’esperienza di Noem come governatrice ai tempi del Covid, e speriamo magari ci siano più dettagli nel volume successivo. L’esperienza è messa indirettamente in relazione con la gestione di un’altra emergenza, quella legata ad alcuni tornado che misero in crisi il South Dakota e le sue finanze nel 2019.
Noem sintetizza così la sua cultura di governo:
Essere sempre trasparenti
Capire i limiti dello Stato
Fidarsi della gente.
Un politico (e, a dirla tutta, qualsiasi essere umano) la sua storia la scrive a proprio modo e con una certa indulgenza almeno per se stesso. Questi principi di Noem escono bene da una controversia minore: quella che la vede porre il veto a una legge, che pure aveva caldeggiato, per impedire ad atleti transessuali di accedere alle competizioni sportive femminili, perché i compagni di partito l'hanno “caricata” di troppi vincoli che vanno ben oltre la tutela di competizioni eque. E poi da una vicenda importante, quella del Covid. Noem ricorda opportunamente la confusione e le comunicazioni spesso contraddittorie delle maggiori autorità del Paese, a cominciare dall’iniziale opposizione di Anthony Fauci all’utilizzo delle mascherine. Descrive poi l’impegno per “appiattire la curva” e rivendica soprattutto il non aver rinnovato il decreto per la concessione di poteri emergenziali al suo governo dopo il primo mese:
Il 28 aprile 2020 ho preso un’altra decisione, che considero tra le più importanti del mio mandato di governatore: Decisi che era giunto il momento di tornare alla normalità. Il virus girava ancora tra noi e avrei continuato a fare tutto ciò che era in mio potere per combatterlo, ma non avrei ampliato ancora i miei poteri.
(...) Non mi sono mai pentita della mia decisione di rifiutare di assumere poteri incostituzionali sui cittadini del Sud Dakota. La mia fiducia in loro era ben riposta; si sono dimostrati responsabili, resistenti e coraggiosi. Poiché non abbiamo mai rinunciato ai nostri diritti fondamentali, il nostro stile di vita è stato in gran parte ripristinato e la nostra economia è in piena espansione nel momento in cui scrivo, alla fine del 2021.
Non abbiamo mai chiuso la nostra economia. Non abbiamo mai imposto l’obbligo di indossare mascherine. Non abbiamo mai impedito a nessuno di andare in chiesa o di cantare in coro in luoghi pubblici. Come governatore, non ho imposto ai cittadini del South Dakota ciò che potevano o non potevano fare. Non ho arrestato o multato un solo individuo (...) Il South Dakota è finito per essere l’unico Stato che non ha mai diviso le imprese private in categorie essenziali o non essenziali.
Decisioni non facili, alle quali “ripenserò per il resto della vita, come a tutte le persone morte”. L’esiguità della popolazione ha fatto sì che il South Dakota avesse poche vittime in numero assoluto, ma un valore su 100.000 abitanti decisamente superiore alla media statunitense nel 2020 e invece inferiore nel 2021. L’assenza di obblighi non ha impedito che si vaccinasse il 60% della popolazione.
Bisognerebbe avere informazioni più ampie e sicure di quelle offerte dall’autobiografia di un protagonista per esprimere un’opinione anche vaga sull’esperimento di “informazione non coercitiva” messa in atto dal piccolo stato del Midwest. Trovare però un così netto rifiuto dell’emergenzialismo imperante, nelle pagine del libro di Noem, accende un lumino di speranza.
Kristi Noem, Not My First Rodeo: Lessons from the Heartland, New York, Twelve, 2022, pp. 288.
Update: La governatrice Noem si è esibita in una performance televisiva tale da lasciare di stucco persino gli ammiratori. Incolpare il suo ghostwriter per aneddoti campati per aria inseriti nel libro (il secondo) non è molto elegante. Comunque, ne leggeremo la versione definitiva… Sul precedente, non ho ragione per cambiare quanto ho scritto.
Della serie: "il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge".