Quando andavano insieme in Chiesa, De Gasperi (del quale ricorrono, quest’anno, i settant’anni dalla morte) parlava con Dio, Andreotti parlava coi preti. La battuta, come tante altre tremende, è di Montanelli. Il sette volte presidente del consiglio si guardava bene dallo smentire. Un po’ perché i preti votano, e un po’ perché la sua devozione per Alcide De Gasperi era indefettibile quanto quella di quest’ultimo per il Padreterno. Questo De Gasperi visto da vicino, uscito nel 1986, dopo tre raccolte di ritratti “visti da vicino”, comincia con un'affermazione impegnativa:
Se io dovessi, dopo una lunga consuetudine, indicare un difetto - o, se si preferisce, la mancanza di una virtù - nel Presidente, non saprei sinceramente cosa rispondere.
L’unica cosa che possa leggersi come una rettifica viene parecchie pagine dopo: “che fosse un po’ distaccato era vero. Credo che, pressato dalle tante cose da fare, avesse l’incubo della perdita di tempo".
Il Giulio Andreotti del 1986, che riannodava il filo dei ricordi, aveva alle spalle tre decenni di vita pubblica “autonoma”, post-degasperiana. In omaggio a quel cinismo che detrattori e ammiratori uniti consideravano il tratto saliente della sua personalità, verrebbe facile intravedere in questo elogio di De Gasperi un calcolo politico, la Democrazia Cristiana nella sua fase calante che si aggrappa al ricordo della sua fase ascendente, il capo del governo per cui “era meglio tirare a campare che tirare le cuoia” (Andreotti lo dirà cinque anni dopo) che si appella all’autorità del primo leader dell’Italia repubblicana, che aveva già visto nell’instabilità di governo il macroscopico difetto di progettazione delle istituzioni e del Paese. Ma con tutta probabilità non è così. Perché Andreotti dipinge un ritratto nel quale, sembra dirci, nessuno può specchiarsi: né lui, che di De Gasperi fu aiutante e discepolo, né altri che pure condivisero l’avventura umana della DC. I nomi che ricorrono nelle pagine sono quelli che attraverseranno mezzo secolo di storia repubblicana: per dire, è Aldo Moro, presidente degli universitari cattolici italiani, che (c’è ancora il fascismo) affida al giovane Giulio “la direzione del settimanale della Federazione”. E poi Gronchi, Pella, Fanfani e quant’altri. Tutti coi loro meriti e coi loro torti, ma nessuno come De Gasperi. Il quale fu davvero l’unico a essere un “costruttore”, per citare il recente saggio di Antonio Polito.
Questo senso del costruire emerge anche dal libro di Andreotti, che però non lo riferisce tanto all’Italia del miracolo economico quanto a un modo di far politica per e fra i cattolici, a un partito, a una Repubblica, al Patto atlantico, allo scheletro delle istituzioni europee. Questo “costruire” non è però solo un raccordare. E l’uomo che esce da queste pagine (altra piccola dimostrazione che l’autore non pensava di parlar bene di sè, parlando bene di lui) è tutto fuorché vocato al compromesso. Il compromesso non sembra essere stato, per De Gasperi, una tecnica della politica. La ricerca dell’accordo era semmai necessaria per definire il campo di gioco della vita comune e per costruire, appunto, un’intelaiatura di rapporti fuori Italia che garantissero all’Europa quello che un uomo nato nel 1881 capiva benissimo le serviva come l’ossigeno: la pace. E tuttavia De Gasperi sapeva esser durissimo con gli avversari politici. Il punto è che la sua durezza non era teatro, non veniva dalla necessità di tener alto lo scontro e così l’attenzione del pubblico votante. Era semmai conseguenza di una naturale equanimità, che lo portava a giudicare le proposte e a soppesare gli uomini con un discernimento che, Andreotti lo suggerisce e a noi non resta che convenire, in Italia non si sarebbe più visto.
Andreotti incontra De Gasperi “auspice l’avvocato Giuseppe Spataro (già presidente della FUCI)”.
Quando lo vidi restai di stucco. Qualche giorno prima avevo avuto un piccolo incidente in Biblioteca Vaticana dove ero andato per consultare l’opera del padre Guglielmotti sulla Marina pontificia, nel quadro di una ricerca universitaria suggeritami dal professor Roberto Sandiford, incaricato di diritto marittimo. Riempito il modellino di richiesta, lo presentai ad un austero impiegato (sembra che anche gli “scrittori” dovessero fare un po’ di umile turno supplendo ammalati o altrimenti assenti) e mi sentii chiedere se non avessi studi più seri e più utili cui dedicarmi. Gli risposi garbatamente, ma un po’ infastidito dalla sorprendente interferenza, insistendo per avere i volumi che io avevo chiesto in lettura.
Scoprivo ora che l’impiegato in parola era appunto De Gasperi.
Il futuro primo ministro era stato preso a lavorare alla Biblioteca vaticana, nel 1928, dopo essere aver sperimentato il carcere. L’accusa, fantasiosa, era di tentato espatrio clandestino, in realtà era finito in galera in quanto leader antifascista che era succeduto a don Sturzo, al quale era stato il Vaticano stesso a indicare la via dell’esilio. “L’intera sua vita era stata una resistenza, ma non la presentò mai allo sconto, pronto anzi a riconoscere che altri avevano pagato di persona più di lui”.
Per tornare a Montanelli, la prima cosa che colpisce il lettore di oggi, del libro di Andreotti, è quant’è scritto bene. La prosa è limpida, senza parole di troppo, quanto di più lontano dal “politichese”. I ritratti (una specialità andreottiana: “visti da vicino”, appunto) sono brillanti. L’unicità degasperiana emerge anche dal proliferare di difetti (o, perlomeno, di assenza di virtù) tutt’intorno a lui. Gronchi ambizioso e tronfio, Pella irretito dal suo “piccolo consiglio della corona”, De Nicola che “non si espose mai in una iniziativa sul cui successo non avesse il cento per cento di garanzie”, Nenni e il suo repertorio di slogan “sulla cui fertile fantasia nessuno poteva certo eccepire”, eccetera. Senza macchie, invece, Guido Gonella, che per l’Osservatore romano aveva tenuto una rubrica, gli “Acta diurna”, riferimento dell’antifascismo anche nel mondo laico, e che poi fu direttore del Popolo. “Lavorare con Gonella”, spiega Andreotti, “era incantevole, tante erano le risorse intellettuali, la miriade di informazioni, la comunicativa umana, l’attitudine all’ironia di questo veronese trapiantato a Roma”. Fanfani e Dossetti non vorranno Gonella a capo della DC, considerandolo inadatto “alla guida di un partito nuovo, scattante, moderno”. L’accuseranno di essere in grado di gestire solo una organizzazione “artigianale” (“l’aggettivo è ingiustamente riduttivo, ignorandosi le stupende possibilità dell’artigianato”). Andreotti osserva che con quell’organizzazione artigianale “la DC aveva raggiunto il trionfo del 18 aprile”.
Mentre su Togliatti Andreotti è sferzante (dopo la morte di De Gasperi, “fra i primi messaggi che il telegrafista aveva raccolto, vi era quello di Togliatti: i comunisti davano atto che nell’azione pubblica Alcide De Gasperi si era sempre ispirato a due non comuni virtù: la buona fede e il personale disinteresse. Momento di verità quello della morte. Forse il solo in assoluto”), diverso è il caso di don Sturzo e di Luigi Einaudi.
Il primo, dall’esilio alla faccenda delle elezioni romane del 1952, è assieme un punto di riferimento intellettuale e un problema per i democristiani. Da parte sua, egli è convinto che “De Gasperi personalmente e la dirigenza della DC avessero fatto ritardare il suo ritorno dagli Stati Uniti”, quando invece “era stato il Vaticano”, prima ad averlo esiliato, poi a esser “causa del protrarsi dell’ostracismo fascista”, alla fine a non cercare di evitare che “la propaganda repubblicana di Sturzo sacerdote” lo coinvolgesse “nella battaglia del referendum”. De Gasperi però “non gradiva che Sturzo si occupasse di politica attiva. Quando Einaudi volle ad ogni costo nominarlo senatore a vita gli espresse il suo dissenso, ritenendo che il Concordato vietasse al clero i mandati politici e non volendo, comunque, che si dette l’avvio per una serie di candidature di sacerdoti”. Sono cose che a noi paiono di un altro mondo, ma su cui la DC ritagliò il proprio abito di partito “laico”, a spese del povero don Sturzo.
Luigi Einaudi emerge invece come un autentico devoto di De Gasperi, che “lo aveva invitato ad entrare nel governo e ad affiancarsi a lui nella grande battaglia di consolidamento democratico”. “Il professore non aveva molta voglia di aderire, ma fu convinto da un colloquio in cui il Presidente gli parlò ‘col cuore in mano’”. Oltre a tracciare la politica economica del “miracolo”, che Pella tiene poi su quella rotta con mano sicura, Einaudi sostiene De Gasperi dal Quirinale. Se il fondatore della DC da principio avrebbe voluto al Colle il Conte Sforza, Einaudi sperava che a succedergli fosse proprio De Gasperi. Andreotti offre un ritratto di Einaudi politicamente un po’ goffo (pensa di trovare la sponda dei partiti laici per l’ottavo governo De Gasperi ma su che cosa fondi i suoi calcoli “non è dato sapere”) ma coerente con quel che di lui sappiamo. Quando arriva Clare Booth Luce a Roma come ambasciatrice, è Einaudi a utilizzare il femminile. “La scelta fu di Einaudi, che ricevendo un provvedimento relativo all’ambasciatore Clare, lo rimandò indietro annotando che ad un capo di Stato si possono chiedere tutti i sacrifici, ma non quello della lingua italiana”.
Fra i due, De Gasperi ed Einaudi, la consonanza di vedute era ampia. Al ritorno dal viaggio negli Stati Uniti nel 1951, nel quale venne ricevuto da Truman e pose con forza il problema di Trieste “punto centrale e pregiudiziale della politica estera italiana”, della revisione del trattato di pace, dell’ingresso dell’Italia nell’Onu, De Gasperi trovò il Presidente della Repubblica a riceverlo a Ciampino.
Le pagine che Andreotti dedica al De Gasperi costruttore del patto atlantico e dell’Europa sono preziose. Ammirato dalla tenacia con la quale il suo maestro riusciva a spostare la frontiera del politicamente possibile un poco più in là, Andreotti non si chiede se nell’europeismo di De Gasperi rivivesse una nostalgia: quella per l’Impero asburgico, nel quale il futuro capo della DC aveva difeso con forza i diritti della minoranza italiana senza tuttavia diventare nazionalista, senza credere cioè che i confini di una unità politica dovessero coincidere strettamente con quelli di una “nazione” linguistico-culturale. L’“europeismo di De Gasperi” è una locuzione trita, nella quale è impossibile non inciampare. Ma siccome la politica è un fiume impetuoso coi sedimenti della storia, ne sfuggono spesso le coordinate intellettuali. Dalle pagine di Andreotti, emerge un De Gasperi indiscutibilmente, culturalmente europeo, e parimenti consapevole che il primo bisogno del continente, prostrato dalla guerra, era la pace. L’Italia, nazione sconfitta (e che continua a essere considerata tale, a dispetto dell’abilità diplomatica degasperiana), non può aderire al trattato del Belgio. In quella situazione, però, al di là di ogni considerazione politica contingente, a De Gasperi Andreotti sente dire: “noi apparteniamo all’Europa occidentale e non ci sono alternative; ma deve essere una Europa di pari dignità per noi e senza ostracismi”. Cioè: guai a umiliare la Germania. A unire De Gasperi e Adenauer non era solo la comune appartenenza democristiana. Era pure il fatto che entrambi rappresentavano la parte del Paese che si era opposta al regime e tuttavia ciò veniva riconosciuto dai vincitori solo a tratti, ovvero quando conveniva loro. La maggiore simpatia per essere il capo di un governo nuovo e la convinzione che non avesse ereditato le colpe del precedente De Gasperi la raccolse dagli americani. I quali, però, gli sembravano dei “giovanottoni” a cui bisognava farla semplice, indifferenti com’erano alla storia che invece appesantiva gli europei.
In questa luce, va visto anche il Patto atlantico, che non doveva conservare una guerra da scaldare a tempo debito ma cercare di evitarne. L’ambasciatore a Mosca, Brosio, poi segretario generale della NATO, “riteneva che un’Italia fermamente democratica e occidentale dovesse offrire all’Unione Sovietica, nei limiti del possibile, una politica di amicizia”.
Va sottolineato che De Gasperi, quando parlava del Patto, ne metteva in luce due caratteristiche sulle quali dai più si prescindeva e che anzi venivano contestate: 1. Non era solo un accordo militare, ma una comunità globale di popoli liberi tendenti anche al progresso associato economico e sociale; 2. L’esistenza del Patto avrebbe bloccato le mire espansionistiche dell’Est ed avrebbe, a tempi più o meno ravvicinati, consentito una comprensione tra le alleanze dell’Est e dell’Ovest, che avrebbe salvaguardato all’infinito la pace.
Al che nel 1986 Andreotti poteva aggiungere: “mentre per questo secondo aspetto quasi quattro decenni di esperienza fanno piena giustizia della lungimirante esattezza della tesi degasperiana, per l’altro pochi conoscono l’attività extramilitare della NATO, forse neanche qualche ministro che partecipa ai consigli dell’Alleanza”.
Altre pagine particolarmente dense sono quelle sulla cosiddetta “legge truffa”. Andreotti racconta con tutta la perizia del consumato navigatore parlamentare quel che accade: come si arrivò alla norma, come un compromesso su un premio di maggioranza più basso fosse fatto saltare da Saragat, come si svolse un dibattito fatto di colpi bassi e anche di episodi che è sbagliato ritenere tipici solo di una fase a noi più prossima della vita repubblicana.
Frammenti tutt’altro che invisibili dei banchi della sinistra furono divelti e lanciati contro i seggi della Democrazia cristiana, mentre i commessi riuscirono a stento ad impedire a Velio Spano, portatosi sulla tribunetta che sovrasta il podio del Presidente, di scagliare contro Ruini una robusta poltroncina. Debbo confessare che, fatto uscire da quel trambusto De Gasperi e rimasto solo al banco del governo, ebbi la tentazione, poco estetica, di proteggermi la testa con il cestino della carta, non convinto che valesse la pena di sacrificare un occhio sull’altare del Senato.
Come andò a finire è cosa nota. La campagna elettorale fu giocata da socialisti e comunisti sulla legge truffa, i partiti apparentati toccarono il 49,8% quindi “per poco più di cinquantamila voti il traguardo non fu superato”. De Gasperi, che avrebbe dovuto essere gratificato da un’alluvione di voti di preferenza, “era avvilito. Quello che più lo turbava era la constatazione che la maggior parte degli italiani - sia pure di stretta misura - non fossero sensibili al richiamo della stabilità del governo”. Il vincolo di apparentamento fra i partiti democratici e non socialisti si sciolse rapidamente e di lì a una decina d’anni si sarebbe aperto lo spazio per formule politiche diverse, con la DC sempre centrale ma all’interno di alleanze eterogenee, con più modeste ambizioni maggioritarie. Un’epoca di governi non sempre deboli, ma spesso ballerini e spendaccioni. La Repubblica per come noi l’abbiamo conosciuta, e che già non era più quella di De Gasperi.
Giulio Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Milano, Rizzoli, 1986, pp. 320
Peccato che abbiano buttato via lo stampo