Nel 2015, l’Istituto Bruno Leoni ha ripubblicato, con una Prefazione di Marco Bassani e mia, Le origini del capitalismo di Jean Baechler. Il libro, uscito in Francia, nel 1971, era stato prontamente tradotto da Feltrinelli e non si può dire fosse stato ignorato nel nostro Paese. Ma, come accade ogni tanto ai saggi, all’interesse iniziale era seguita una lunga stagione d’indifferenza. Un piccolo classico finisce per appassire quando è inserito nelle bibliografie più prestigiose e tuttavia lasciato a se stesso: bisogna darne conto perché “si deve”, ma con il più delle volte è una citazione di seconda mano.
La seconda edizione italiana di Le origini del capitalismo, ritradotto con maestria da Carlo Lottieri che di Baechler aveva seguito i corsi alla Sorbona, arrivava dopo che anche in Italia la genesi della rivoluzione industriale era finita per occupare spazio prezioso in libreria. Noi siamo un popolo di santi, navigatori e traduttori, e avevamo diligentemente tradotto da principio ovviamente T.S. Ashton e David Landes, e poi i vari Rosenberg e Birdzell, E.J. Jones, Joel Mokyr. Questi autori, e molti altri, hanno sviscerato, con strumenti nuovi, la grande questione: come mai la Rivoluzione industriale è avvenuta quand’è avvenuta e dove è avvenuta, e non per esempio nell’Egitto dei faraoni o nella Cina della dinastia Song?
Le risposte offerte dai questi autori sono diverse e preziose, anche perché abbiamo a che fare con un fenomeno complesso, del tipo che non può avere una spiegazione monocausale. In anni recenti, il tema è stato l’oggetto anche della Bourgeois Trilogy di Deirdre N. McCloskey, lavoro ponderoso e importantissimo, che, proprio per la mole, non ha ancora trovato un traduttore coraggioso La tesi di McCloskey (qui per un riassunto) è che la con-causa cruciale sia un cambiamento nella cultura diffusa, quello che fa sì che mestieri mercantili e artigianali, un tempo guardati dall’alto in basso e considerati professioni poco onorevoli, vengano invece apprezzati, liberando una creatività che fino ad allora era stata compressa. Lavorare su cose utili ai più diventa una faccenda meritevole di stima: a Londra, fra tante statue di Nelson, se ne inaugura una per James Watt e i nuovi ceti produttivi si conquistano un posto al sole rivendicando come legittimo e onorevole il produrre e lo scambiare.
Il libro di Baechler è essenzialmente un saggio di storia delle idee e afferma una interpretazione della genesi del capitalismo confrontando criticamente con due tesi classiche: quella di Karl Marx e quella di Max Weber.
Come scrivevamo Marco Bassani e io nella Prefazione a Le origini del capitalismo:
Il discorso di Jean Baechler sul capitalismo si inserisce nel suo più ampio percorso di studioso della modernità e della sua portata. Come egli stesso ha sottolineato, quella sulla modernità è l’indagine per antonomasia nelle scienze sociali: «Si può sostenere che le scienze sociali in generale e la sociologia in particolare sorgano, a partire dal XVIII secolo, nel tentativo di comprendere e spiegare le innovazioni che andavano emergendo nelle società europee – ciò che possiamo chiamare “modernità”». L’ordine politico domina l’ordine economico: il capitalismo è una conseguenza della democratizzazione. La democrazia, per Baechler, non è un’invenzione moderna ma al contrario «il regime spontaneo, morale ed esclusivo della specie umana nelle prime decine di millenni della sua presenza sulla terra».64 L’Europa semmai reinventa la democrazia e lo fa proprio a partire dalle città che le offrono “le proprie condizioni di possibilità”. In questo processo, conta non solo la tendenza alla mutua limitazione del proprio potere da parte di comunità politiche che sono rivali, nelle relazioni internazionali che intrattengono l’una con l’altra, ma soprattutto la limitazione del potere politico all’interno di ogni paese. Il pluralismo politico è un miracolo storico: se il potere si muove sempre verso la plenitudo potestatis, in Europa, la Chiesa, le élite sociali nate dalla feudalità, le città e la borghesia, le comunità dei villaggi creavano sistemi di bilanciamento e contropotere rispetto allo Stato.
L’origine del capitalismo, per Baechler, andava rintracciata in un particolare assetto politico: in quella condizione politica peculiare in cui l'Europa si è trovata per più di mille anni. La cosa più importante che è accaduta in Europa è qualcosa che non è accaduto. Nel nostro continente, una grande omogeneità culturale, quella fornita principalmente dal cristianesimo, non ha prodotto un ordine politico unico e centralizzato. Baechler riteneva che le radici del capitalismo fossero nel Medioevo e nella civiltà mercantile e borghese che si sviluppò alla sua conclusione. Il pluralismo politico aveva contribuito a calmierare gli abusi del potere ma anche a creare uno spazio per sperimentare soluzioni concrete, nel mondo dei commerci e dei traffici. E’ vero che questo pluralismo si è andato riducendo, nel momento in cui questo pezzo di mondo si è diviso in Stati nazionali: ma è altrettanto vero che il numero degli Stati è sempre stato “superiore a uno”. Come ho scritto in un articolo sul Wall Street Journal, la tesi di Baechler ci rammenta quanto sia essenziale la libertà di potersene andare, di avere un altrove in cui cercare condizioni migliori.
Invitammo Baechler a tenere il “Discorso Bruno Leoni” (la conferenza principale dell’Istituto, che torneremo a organizzare smaltite le restrizioni pandemiche) nel 2015, quell’anno eravamo all’Accademia delle Scienze di Torino. Era uno studioso eclettico, che si era poi dedicato a temi diversi ma aveva sempre tenuto d’occhio il dibattito sulle origini del capitalismo al quale aveva contribuito nel 1971. La conferenza si può ancora ascoltare qui.
Jean Baechler, Le origini del capitalismo (1971), IBL Libri, Torino, 2015, pp. 166.