E’ possibile studiare l’economia, comprenderne alcuni concetti-chiave, attraverso la letteratura? Riusciremmo ad allenare il nostro “ragionare economico” con le storie, anziché con i trattati? La risposta è sì, perché l’economia non è altro rispetto alla vita delle persone e siccome la grande letteratura, perlomeno la grande letteratura moderna, appunto della vita delle persone parla, non può farlo senza considerarle anche quali agenti economici. Non è detto, ovviamente, che si tratti di riferimenti consapevoli e men che meno messi lì a bella posta, in omaggio a una qualche idea pedagogica. La letteratura pedagogica, come del resto i film pedagogici, o la fiction televisiva pedagogica, è di norma odiosa. Ciò che fa grande un racconto è proprio la sospensione del giudizio: uno scrittore curioso dei suoi personaggi non li incasella, li racconta, con le loro luci e le loro ombre, la loro grandezza e le loro meschinità. Lo scrittore di sermoni di solito non è un bravo autore di romanzi. Quando un’epoca esige dagli scrittori l’esibizione dei loro giudizi e delle loro opinioni, come una tassa da pagare per esser presi sul serio, produce una letteratura mediocre. Ogni riferimento agli anni che stiamo vivendo è puramente casuale.
Luigino Bruni apre questo suo libro notando come “gli economisti di professione non si sono occupati, né si occupano, di letteratura: non sono andati a cercare, per studiarle, le dimensioni economiche dei romanzi e delle poesie. Qualche importante economista del passato ha anche scritto alcune pagine in buona prosa, ma non le inseriremmo in nessuna raccolta di saggi letterari”. L’economista della Lumsa ha ragione a lamentare l’indifferenza per la letteratura dell’economia contemporanea, anche se forse gioverebbe ricordare che in molti, in passato e anche in anni recenti, hanno provato a suggerire ricerche che ricongiungano letteratura ed economia. Faccio solo qualche esempio. A proposito di “economisti che scrivono bene”, nell’anno di grazia 1966 Sergio Ricossa curò per le edizioni dell’Albero (Alfredo Cattabiani) l’antologia L’economista ispirato. Il libro risale a un’epoca nella quale “è imperdonabile ignorare chi è Bertold Brecht ma è ammesso senza ignominia chi era Keynes”. Ricossa cercò di rimediare, mettendo assieme alcune pagine di economisti (Smith, Bastiat, Cattaneo, Marx, Ferrara, Pareto, Einaudi, Keynes) che sapevano scrivere, offrendo al lettore il meta-messaggio per cui
l’elogio delle «intelligenze ordinarie» è in fondo il ritornello implicito in ogni pagina davvero ispirata di ogni economista davvero grande. Perciò Einaudi, Keynes e gli altri, quando siano letti, appaiono come amici, che ci vengono incontro sorridendo, e ci stendono la mano prima di conversare amabilmente. Noi li comprendiamo perché loro ci comprendono, e anche se siamo in disaccordo, come può accadere tra amici, riconosciamo delle care e incoraggianti affinità nel modo di pensare nostro e loro.
Molti anni dopo, nel 1994, Rossella Bocciarelli e Pierluigi Ciocca pubblicarono per Laterza una antologia di Scrittori italiani di economia, con postfazioni di Cesare Cases e Tullio De Mauro. Questo per stare all’Italia. Nel 1985, D.N. McCloskey aveva pubblicato il suo The Rhetoric of Economics (in Italia tradotto nel 1988, con prefazione di Augusto Graziani) che è un tentativo di leggere come artifici retorici (non è una critica ma una descrizione) le strategie argomentative degli economisti. McCloskey era molto influenzata da Paul Feyerabend, per cui nella discussione scientifica anything goes: ovvero chi ha un’intuizione, un’idea forte, e se ne sente sicuro, tutto fa fuorché sedersi sulla riva del fiume aspettando che quanto ha proposto venga popperianamente falsificato. Anzi mette in campo tutta la capacità di argomentare che ha, ricorrendo opportunisticamente a spunti, citazioni, idee che provengono da altre discipline. Agli economisti, come a tutti, non basta avere ragione: gli piace farsela dare. Nel corso degli anni, McCloskey ragionerà sempre di più sull’importanza della reciproca persuasione nella vita economica e sosterrà, nella sua “trilogia borghese”, che la stessa Rivoluzione industriale è l’esito sostanzialmente di un cambiamento nel modo di parlare delle persone, di rivolgersi gli uni agli altri e di interpretare gli uni gli sforzi degli altri. I “dati” a cui McCloskey attinge per argomentare la sua tesi sono in larga misura testi teatrali, romanzi, poesie, tutto quel che può servire per capire cosa pensa una società in un certo momento storico.
Da alcuni anni, McCloskey è impegnata, assieme a studiosi come Vernon Smith (Premio Nobel per l’Economia 2002), a proporre ai colleghi quello che chiama “Humanomics”. Cioè un modo di leggere e studiare l’economia, e di presentarla agli studenti e in special modo quelli che si stanno avvicinando per la prima volta alla disciplina, attraverso il ricorso a testi letterari, cercando lì “casi” e storie utili a verificare alcune tesi degli economisti. I corsi di “Humanomics” (ce ne sono, in giro per il mondo) tendono ad affiancare pagine dei classici della disciplina a testi letterari, provando a leggere gli uni alla luce degli altri.
Tutto questo per dire che quando Bruni scrive, nella premessa del suo volume, che “da più di un secolo, l’economia ha fatto una scelta radicale nel metodo e nel linguaggio. I nuovi maestri della disciplina hanno lasciato le parole e la prosa per iniziare a parlare quasi esclusivamente con i numeri e la matematica” dice qualcosa di vero ma non del tutto. E’ indubbio che si tratta dell’orientamento predominante - anche se molti illustri esponenti di questa tendenza, Paul Samuelson e Milton Friedman per fare solo due nomi, erano bravini anche con le parole, e le usavano magistralmente per farsi capire dal grande pubblico. Ma, soprattutto in anni recenti, sono emersi tentativi che cercano invece di riconciliare economia e letteratura, e anche economia e cultura popolare. E qualcuno ha persino provato a leggere gli economisti come scrittori, sottolineando come il valore letterario di quanto scrivevano non sia proprio estraneo alla fortuna che essi hanno poi avuto. Nella sua Letteratura dell’Italia unita, Gianfranco Contini metteva, fra i maggiori prosatori del secolo, Luigi Einaudi. Qualcosa di simile si può dire, nel mondo anglosassone, di Keynes, di Friedman, di Krugman.
Bruni nota che
L’indifferenza degli economisti verso la letteratura è stata ricambiata solo parzialmente dagli scrittori. Perché se da una parte gli scrittori «di mestiere» non hanno cercato intenzionalmente e sistematicamente un dialogo con gli economisti, alcuni letterati si sono comunque interessati di economia (…) e lo hanno fatto perché sapevano che l’economia è componente essenziale della condizione materiale della gente, è la sostanza della vita concreta delle persone. (…) E così, quando la letteratura ha voluto parlare della vita vera, non ha potuto non incontrare il lavoro, il consumo, il risparmio, le fabbriche, le migrazioni, la cura, gli ospedali, la scuola, i campi, le banche, gli uffici, le tasse.
Il libro non inaugura un nuovo campo di studi, dunque, ma ci si inserisce autorevolmente. Si concentra su Dante, Shakespeare, Verga, Camus, De Amicis, Hugo e la Bibbia. Di Bruni, posso dire quello che mi piacerebbe qualcuno dicesse di me: che è assieme un ideologo e un bravo studioso (nel suo caso, l’ideologo di uno strano minestrone con frattaglie mal assortite che va sotto il nome di “economia civile”). Ogni tanto prevale l’uno, ogni tanto l’altro. E’, sia quando prevale l’uno che quando prevale l’altro, uno scrittore brillante e appassionato. Dunque anche questo Il campo dei miracoli. Viaggio economico nei capolavori della letteratura si legge bene. Va da sé che la materia d’indagine è stata delimitata in modo arbitrario. Penso solo ad alcune assenze cospicue: perché manca Manzoni? E perché escludere Zola? Tanto per citare due classici, senza entrare nella letteratura cosiddetta “di genere” che è piena di suggestioni economiche. Bruni scrive, vista collana ed editore, per un pubblico “più vasto” della ristretta cerchia degli esperti (o almeno così lui spera e anch’io). Ma certe dimenticanze rispetto alla letteratura secondaria lasciano perplessi: per esempio, nessuna menzione per Giuseppe Garrani, quasi conterraneo di Bruni (nato a Civitella Casanova Garrani, ad Ascoli Piceno Bruni), che sull’economia di Dante scrisse cose per nulla banali.
Dei diversi libri passati in rassegna, vorrei esaminare solo l’interpretazione che Bruni offre di Pinocchio, che mi sembra molto discutibile. Bruni prova a fare del romanzo di Collodi un manifesto ideologico: la casa di Geppetto è povera, poverissima; il libro è una storia “della resistenza dei ragazzi all’azione educativa tenace dei nuovi maestri” risorgimentali; esso dimostrerebbe che “con i ragazzi la reciprocità buona è solo quella attivata dal dono, è figlia della gratuità” perché “il diritto al cibo e ai beni dei ragazzi non nasce dal contratto”.
Bruni non è l’unico a coltivare una lettura simile, che però sembra mettere del tutto in secondo piano la natura di racconto morale di Pinocchio: letto (avranno sbagliato tutti, per carità) da generazioni di genitori e ragazzi come ammonimento a non dire le bugie, a mantenere le promesse, cosa imprescindibile proprio per una società fondata sul rispetto dei contratti.
Parlando del Mercante di Venezia, Bruni accenna al saggio di Albert Hirschman, Le passioni e gli interessi, che ci ha insegnato come appunto la “trasformazione delle passioni in interessi” sia stata uno dei “principali caratteri della modernità” e “qualcosa di desiderabile nel suo insieme. Perché mentre le passioni, non essendo razionali, possono essere devastanti per il singolo e le comunità, gli interessi, in quanto prevedibili e calcolabili, sono meno pericolosi”. Hirschman dedica pagine interessanti alla “demolizione dell’eroico”: la morale eroica, che aveva dominato il mondo classico e medioevale, viene letta in parte come insopportabile giustificazione di atteggiamenti predatori e in parte come esaltazione di passioni violente e distruttive. L’ethos della civiltà borghese si innesta su questo rifiuto del vecchio “eroismo”. E dove la demolizione dell’eroico raggiunge il suo apice, se non nell’incipit di Pinocchio?
C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Nell’ottavo capitolo, c’è una citazione di quelle che scaldano il cuore di Bruni. Quando Pinocchio chiede l’abbecedario a Geppetto e questi gli risponde che non ha di che comprarlo, “Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi”. Geppetto allora si vende la giacca, per acquistare il libro al suo figliuolo di legno: scena commovente, senz’altro, ma che segnala pure l’idea che l’istruzione del burattino è un buon investimento, per il quale vale la pena rinunciare al tepore che offre la casacca.
Pinocchio, che parte ben intenzionato a imparare a leggere a scrivere “e anche i numeri”, prova poi a imitare Geppetto e a vendere la sua giacchetta a un altro ragazzo per i quattro soldi che gli servono per andare a vedere il teatro dei burattini. L’altro fanciullo non compra nulla dal burattino mentre “un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione” interviene e acquista proprio l’abbecedario che era costato al falegname la sua casacca. Commenta Bruni: “I ragazzi non fanno contratti, non possono e non devono fare compravendite in denaro. (…) Entra in gioco un adulto, un commerciante, un professionista del denaro, che fa un gesto illecito nei confronti del ragazzo e instaura una relazione sbagliata con lui”. Sarebbe grazie a questo “abuso economico” che Pinocchio finisce da Mangiafoco.
Che dire se non: mah. Pinocchio è avventato, disattento, umorale ed emotivo e soprattutto non sa nulla del mondo. Le sue avventure possono essere lette, esattamente al contrario di come fa Bruni, come un apprendistato nel quale il burattino è costretto a masticare un po’ di economia, a cominciare dal fatto che i soldi non crescono sugli alberi, come apprenderà grazie al Gatto e alla Volpe al campo dei miracoli che dà il titolo a questo saggio. Secondo Bruni, a Pinocchio i cinque zecchini che lo consegnano ai due bricconi sono stati “regalati” da Mangiafoco e il solo possederli lo “espone agli abusi del Gatto e della Volpe”. Se così fosse, quella di Collodi sarebbe una favola per bambini ricchi: tacete la vostra prosperità, perché il solo parlarne attira qualche truffatore (qualcosa del genere è stato effettivamente insegnato a generazioni di bimbi abbienti). Ma i cinque zecchini Mangiafoco li ha dati a Pinocchio sia perché il racconto delle sventure di Geppetto lo hanno mosso a pietà, sia perché il burattino gli ha proposto proprio un “contratto” (di quelli che i bambini non dovrebbero mai fare): cioè la sua vita in cambio di quella di Arlecchino.
Giustamente Bruni ricorda che il Gatto e la Volpe ingannano Pinocchio non solo perché gli prospettano un facile guadagno, ma perché ricorrono al “registro del dono e dell’altruismo”: “non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri”. Il Grillo-parlante lo mette in guardia: “Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni!”
Le cose vanno come vanno e la lezione che il burattino impara, a caro prezzo certo, è proprio quella di non fidarsi delle chiacchiere sulla solidarietà e sul bisogno. Tant’è che quando incontrerà di nuovo i due, stavolta, ci dice Collodi, poveri per davvero, si rifiuterà di far loro la carità e rammenterà loro tre proverbi: “I quattrini rubati non fanno mai frutto”, “La farina del diavolo va tutta in crusca”, “Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia”.
Un altro esempio: l’isola delle api industriose. Per Bruni si tratta di un luogo "tanto sbagliato quanto il Paese dei balocchi” e assolutamente estraneo ai ragazzi, dal momento che Pinocchio dichiara di non esser fatto per lavorare. E nondimeno alla fine, sull’isola, Pinocchio lavora. Quello che fa è rifiutare le prime proposte che gli vengono fatte, il carbonaio e il muratore che gli offrono rispettivamente quattro e cinque soldi in cambio della sua fatica. Alla fine, però, accetta il “contratto” della donnina con le brocche d’acqua (la fata turchina): scambia lavoro (l’aiuta a portarle a casa) con cibo (un piatto di cavolfiore e un confetto ripieno di rosolio). Per Bruni, ciò avviene solo perché “la donna supera lo scambio di equivalenti” e offre al ragazzo di più di quel che a lui costa la fatica. “La reciprocità dei fanciulli nasce dall’eccedenza asimmetrica”. Concetto ben curioso: noi tutti, come Pinocchio, entriamo in uno scambio quando riteniamo che ce ne venga qualcosa di più della fatica (del costo) che sosteniamo. Se un lettore stima che dalla lettura del volumetto di Bruni non gli verrebbero in cambio divertimento, informazioni, idee per un valore superiore ai 16 euro del prezzo di copertina, lo lascia sullo scaffale.
Torniamo a Pinocchio. Poche pagine dopo, la fata turchina, rivelatasi per quel che è, lo esorta a tornare a scuola e ad apprendere un’arte o un mestiere. Pinocchio “brontola fra i denti” che “non voglio fare né arti né mestieri... perché a lavorare mi par fatica”.
La fata turchina gli risponde:
quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia, e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più.
Avrà ragione Bruni, Pinocchio sarà una favola sulla “diversità” del mondo dei ragazzi che andrebbero preservati dalle nequizie della nostra società commerciale, in cui tutti siamo tanto o poco dei mercanti. Tenderei però a pensare l’esatto contrario: Pinocchio come ogni grande opera prova a raccontarci un pezzo della nostra umanità e il modo in cui la racconta è intriso di quella “morale borghese” che si va radicando nel mondo del suo autore. Certo che Collodi descrive una povertà dignitosa e onesta come quella di Geppetto con molta simpatia. Difficile immaginare un racconto, del resto, in cui si esalti semmai una ricchezza fraudolenta e disonesta. Ma il burattino diventa un bambino vero precisamente perché desidera aiutare il padre, e perché cammin facendo ha imparato che per farlo non c’è alternativa possibile all’onesta e dignitosa fatica.
Luigino Bruni ha fatto un’opera meritoria riunendo le sue interpretazioni di alcuni capolavori della letteratura. Ha scritto un saggio piacevole e stimolante anche per chi si trova, capitolo dopo capitolo, pagina dopo pagina, in radicale disaccordo sia con la sua lettura dei testi sia con la sua interpretazione più “anti-economica” che “economica” dei medesimi.
Luigino Bruni, Il campo dei miracoli. Viaggio economico nei capolavori della letteratura, Venezia, Marsilio, 2024, pp. 160.
Bruni...chissà perché...ogni volta che ne leggo qualche riga penso che vorrebbe essere tanto Horatio Nelson ... ma solo per poter impiccare liberali senza subirne le conseguenze😅