E’ probabilmente il più leggibile dei libri di Thomas Piketty. L’economista francese ha messo assieme i suoi editoriali scritti fra il 2016 e il 2021, premettendovi un saggio più articolato. Questa volta la sua ambizione non è quella di fornire un affresco storico sull’andamento delle diseguaglianze dal quale si possano dedurre alcune proposte politiche. Si tratta di interventi più di dettaglio, che dovrebbero servire per dare sostanza al “socialismo del secolo XXI” versione Piketty.
Due sono le cose che almeno a me sono parse più interessanti. Primo, il modo in cui Piketty ricorda di avere maturato queste idee. Nato nel 1971, si descrive come il perfetto esponente di una generazione “che non poteva essere sedotta dal comunismo” e che ha festeggiato il crollo del muro di Berlino. Ma nei trent’anni successivi “l’ipercapitalismo” è “andato fuori strada”, convincendo Piketty a convertirsi al “socialismo”. Parola che lui usa nel senso se vogliamo più stringente e corretto: cioè come sistema di idee che mira al passaggio dei mezzi di produzione sotto il controllo statale, direttamente oppure attraverso regole che limitino nettamente la possibilità di individui e imprese di disporre delle loro proprietà.
E’ curioso come Piketty, ma con lui anche gli altri esponenti della sinistra intellettuale che oggi va per la maggiore in tutto l’Occidente, non ritengano che la limitazione dei diritti di proprietà possa rappresentare un problema: non solo “economico” ma anche “sociale” o “civile”. Detto in altri termini, sostengono di aver fatto i conti col comunismo ma non pensano che i regimi dispotici quando non totalitari che esso ha generato abbiano nulla a che fare con quell’ideologia. In un’economia di mercato, ogni problema e ogni “imperfezione” è riconducibile al “sistema” capitalistico; in un regime socialista, i governanti possono essere dei mostri ma non c’è nesso che leghi i loro delitti alle istituzioni nelle quali operano.
L’altra cosa per me curiosa è come il desiderio di “smontare il capitalismo” sia diventato il nuovo mastice del movimento intellettuale di cui Piketty è uno dei campioni. Mi spiego. Chi desidera più redistribuzione non necessariamente dovrebbe anche auspicare una “politica industriale” muscolare. Chi sostiene che lo Stato dovrebbe “indirizzare lo sviluppo” non è necessariamente interessato ad aumentare l’offerta di servizi pubblici alla persona. Per dire: solo pochi anni fa discutevamo del “modello svedese” (Stato sociale pesante ma economia aperta allo scambio internazionale e relativamente poco regolamentata). Il progetto caro a Piketty (e non solo a lui) è invece proprio quello di far sì che l’allocazione delle risorse dipenda quanto più possibile dallo Stato. L’impressione è che le ragioni fornite, che si parli di welfare o di ambiente, siano sostanzialmente pretestuose. Il nuovo socialismo spalancherà un’era di felicità, prosperità e sostenibilità per tutti. E chi non ci crede è un servo del capitale.
Thomas Piketty, Time for Socialism: Dispatches from a World on Fire, 2016-2021, New Haven, VT, Yale University Press, 2021, pp. 346