Alejo Carpentier è forse il meno letto, oggi, fra i protagonisti della stagione del “realismo magico” sudamericano. Con tutta probabilità, questo è il meno importante dei suoi libri: si tratta di una raccolta di pezzi di cronaca e critica musicale, la maggior parte pubblicati su Nacional di Caracas, più un paio di saggi di maggior respiro.
I lettori di Carpentier sanno quanto sia importante la musica nei suoi romanzi. Questi articoli restituiscono l’impressione di una passione divorante, che dagli anni della gioventù accompagna lo scrittore cubano per tutta la vita. Una passione “di famiglia”: “mio padre era un eccellente violinista, cosa che era per lui ancora più importante del suo mestiere di architetto. Una mia zia, magnifica pianista, era stata allieva di César Franck. Fare musica era abitudine comune della mia famiglia da generazioni”.
Da queste pagine non emerge solo la consuetudine con la musica, ma anche il gusto di farla capire. La prosa è quella di un giornalista consumato, a distanza di più di sessant’anni queste cronache continuano a farsi leggere e sono interessanti anche per il mondo che rivelano. Un articolo del 1958 commenta un’intervista di sir Thomas Beecham che discute della prassi, allora comune, di tradurre il libretto e cantare l’opera nella lingua del pubblico. Carpentier concede che a volte l’esito può essere piacevole ma nota che si è “arrivati all’assurdo di tradurre I maestri cantori in fiammingo e Sigfrido in catalano”. Come Beecham (e come noi oggi), Carpentier preferiva “capire assai poco di quel che dice Hans Sachs in tedesco che vederlo esprimersi in francese o in italiano. Al cambiamento di lingua, cambia anche la personalità”.
Carpentier legge con interesse i Quaderni di conversazione di Beethoven, che gli rivelano un B sornione, voluttuoso, “umano”, ben diverso dall’anima tenebrosa con cui molti lo identificano. Difende il genio di Scriabin, in occasione di un anniversario poco celebrato. Saluta con ammirazione Erik Satie a un anno dalla morte.
Il libro si apre, e non potrebbe essere altrimenti, con due pezzi su Heitor Villa-Lobos, del quale era musicalmente innamorato sin dagli anni venti, quando lo conobbe per la prima volta. Il primo dei due articoli è una intervista, il secondo è una para-intervista e in un caso e nell’altro intervistato e intervistatore parlano con la medesima voce. Il Villa-Lobos di Carpentier è un difensore della libertà del compositore, anche innanzi alle mode dalla modernità. “Si esprime come avrebbe potuto esprimersi un classico, in qualsiasi epoca della storia della musica”. Un complimento luminoso.
Alejo Carpentier, Ese músico que llevo dentro (1980), Madrid, Alianza Editorial, 2007, pp.424.