Nella sua nota conclusiva, Cesare De Michelis raccontava così questo libro: “è appena passata l’estate, la lunga terribile estate del ’68, aperta dalla accese giornate del maggio parigino e conclusa dai carri sovietici nelle bellissime strade di Praga: un uomo e un cane proseguono in solidale solitudine la loro vacanza, resistono, arroccati su una rupe che sovrasta il mare, lontani dalle turbolenze urbane, dalle strade vocianti”.
L’uomo guarda con una certa preoccupazione la generazione della figlia rifare, con camicie di diverso colore, gli errori che aveva fatto la sua, si sente uno sconfitto e un poco teme anche la sconfitta inevitabile in cui incorrerà la sua “diletta”, sospetta degli incendiari perché è ben consapevole degli effetti degli incendi.
La voce del cane Tocai, un cocker spaniel, in questi articoli che Giuseppe Berto (1914-1978) pubblicò sul Resto del Carlino, è al contrario quella di un rivoluzionario, immerso nei suoi tempi fino alla punta delle zampe. “Immagino che qualcuno vorrà chiedermi come mai un cane di tale razza, educato mica male, giustamente vitaminizzato nel periodo della crescita e poi in seguito sovente nutrito a bistecche, sia diventato un rivoluzionario permanente. A chi mi chiedesse ciò io non saprei rispondere se non per analogia, ossia ricordare che tanti ragazzi che hanno avuto crescite anche più dorate e vitaminizzate del mio cane e sono rivoluzionari assai più arrabbiati di lui”.
Tocai fa proprie con slancio slogan rimasticati da Mao e Marcuse e quando Berto lo provoca si richiude nel più impenetrabile settarismo. Guai a pensare di “rimettere in sesto il sistema che abbiamo”, accontentandosi di cambiamenti marginali e ben ponderati, e guai a negare che “c’è un solo imperialismo, l’imperialismo capitalista”. Non gli basta il sobrio buon senso del suo padrone, che quando gli chiedono della guerra del Vietnam nota sobriamente come
gli uomini politici del mio paese sprecano una buona quantità del tempo che potrebbero più utilmente dedicare ai gravi problemi che ci affliggono facendo interminabili discorsi sulla guerra nel Vietnam, della quale essi ovviamente poco conoscono e sulla quale esprimono opinioni contrastanti, seguendo il punto di vista del partito al quale appartengono [certe cose, verrebbe da dire, non cambiano mai]. Io, a proposito d’una così dolorosa e preoccupante faccenda, ho solo una cosa da dire: mi dispiace moltissimo.
Questi articoli devono essere parsi, all’epoca, davvero “reazionari”. Che uno dei maggiori scrittori italiani dovesse immaginare di discutere di questi temi col suo animale domestico ci dà l’idea di quanto poco propensi ad ascoltarlo fossero i bipedi. Potremmo provare a rileggerlo adesso, Berto, perché molte delle sue osservazioni, purtroppo, non hanno perso un grammo d’attualità. Basti leggere questo passo sulla burocrazia:
Invero lo Stato per primo si rende conto che il costo della propria amministrazione è biasimevole: i pubblici funzionari, molti dei quali stanno insediati in uffici superflui, costano troppo. Allora che ti fa? Istituisce un ministero per la riforma burocratica, ossia un complesso di burocrati ch mettono in moto la macchina burocratica per ridimensionare la burocrazia. Qui l’errore, forse, è che si presume troppo dagli uomini, giacché succede che i burocrati, con tutte le buone intenzioni magari, finiscono per potenziare se stessi, per rendersi ancora più inaccessibili e inattaccabili, per crearsi carriere più rapide e remunerative.
Ovviamente non è il suo buon senso a fare di Giuseppe Berto un grande scrittore, uno dei massimi del nostro Novecento. Ma è la sua straordinaria capacità di guardarsi allo specchio e di costringere il suo lettore a fare lo stesso che ne ha fatto, assieme, un grande scrittore e un saggista di mirabile buon senso.
Giuseppe Berto, Colloqui col cane (1968), Venezia, Marsilio, 1986, pp. 172