Pare che una volta, dopo una discussione particolarmente esasperante, l’economista Ludwig von Mises abbia liquidato la sua interlocutrice (poco propensa a rivedere le proprie posizioni) come “a silly little Jewish girl”. Ayn Rand, nata Alisa Rosenbaum, era una ragazza ebrea russa di San Pietroburgo, come del resto Ludwig von Mises era un ebreo galiziano nato a Leopoli (città culturalmente polacca, oggi ucraina) poi cresciuto a Vienna. Sia Rand che Mises erano laici, Rand era un’atea militante. La “tradizione giudaico-cristiana” figurava fra i suoi nemici giurati. Questa nuova biografia di Alexandra Popoff è inserita in una collana dedicata alle “Jewish Lives” (da Mosé a Barbara Streisand) e cerca appunto temi e sottotesti ebraici nell’opera di Rand. L’autrice è una giornalista russa, emigrata in Canada, che ha scritto saggi su Vasily Grossman e Tolstoj: insomma, un’esperta di letteratura russa. Il che non è scontato, dal momento che Ayn Rand ha pubblicato solo in inglese.
La scelta è però indovinata e l’esito interessante. Negli ultimi anni Rand è stata oggetto di ricerche nuove, da parte di studiosi che non vogliono farne né un’eroina né un mostro. Da parte, a dire il vero, soprattutto di studiose: Jennifer Burns, poi autrice di una bella biografia di Milton Friedman, con Goddess of the Market: Ayn Rand and the American Right; Anne Heller con Ayn Rand and the World She Made; in Italia, Diana Thermes con Ayn Rand e il fascismo eterno. Questi lavori le riconoscono una certa qualità letteraria e un posto nella galleria dei testimoni del Novecento.
Alisa Rosenbaum nasce a San Pietroburgo nel febbraio del 1905 e muore a New York nel marzo 1982. Ha quindi dodici anni quando i bolscevichi prendono il Palazzo d’inverno. La sua è una famiglia ebrea e borghese, il padre è farmacista, la madre aveva studiato da dentista. “Le scuole per diventare dentisti in Russia erano le meno regolamentate”, spiega Popoff, “il che consentiva agli ebrei di superare il problema delle quote di ammissione”. Nella San Pietroburgo d’inizio secolo oltre il 50% di medici e dentisti erano ebrei. La sua famiglia perde tutto o quasi nella Rivoluzione e Alisa-Ayn riesce a emigrare negli Stati Uniti a ventun anni, grazie a dei cugini della madre che si assumono gli oneri del suo soggiorno innanzi alle autorità americane. Nel 1924, ricorda Popoff, gli Usa avevano introdotto pesanti restrizioni all’immigrazione dall’Europa orientale. Alisa entra in America con un visto di sei mesi, un finto biglietto di ritorno per convincere i funzionari dell’immigrazione e l’ambizione di scrivere per il cinema.
Riesce a farsi apprezzare dal suo mito, Cecil B. De Mille, fa la comparsa in alcuni film, sposa un’altra comparsa, Frank O’Connor, al quale deve la naturalizzazione come cittadina americana, pubblica quattro romanzi: We, the Living (Noi Vivi, 1936), Anthem (Antifona, scritto nel 1937 e pubblicato da principio solo in Inghilterra nel 1938), The Fountainhead (La fonte meravigliosa, 1943) e Atlas Shrugged (La rivolta di Atlante, 1957). Il successo le arride con La fonte meravigliosa, che diventa poi un film di King Vidor, da lei stessa sceneggiato, con Gary Cooper e Patricia Neal (i due s’innamorano sul set, poi Cooper fece ritorno dalla moglie e Neal sposò lo scrittore Roal Dahl). Atlas Shrugged è la storia di come la parte creativa e industriosa della società americana entri in sciopero, la serrata degli innovatori contro un mondo che pretende una larga fetta della ricchezza da loro creata e non dice nemmeno grazie.
Trasferendosi negli Stati Uniti, Rand cercava la società più diversa possibile dall’Unione sovietica da cui era fuggita. Fu profondamente delusa dal vedere che c’erano americani che simpatizzavano ideologicamente col suo Paese di nascita (il corrispondente del New York Times era il filo-staliniano Walter Duranty), mentre la Grande Depressione alimentava le pulsioni socialiste del ceto intellettuale. La russa Rand si carica sulle spalle nientemeno che la difesa della “American way of life”, ovviamente reinterpretata da par suo. Se da principio la memoria del socialismo reale la spinge a impratichirsi di economia (è così che conosce Mises, Henry Hazlitt e altri economisti liberisti dell’epoca), Rand comprende un fatto cruciale: che cioè le difese della società libera sono deboli anche perché non esiste una filosofia “complessiva” che la presidi. Prova quindi a soffiare vita e passione nell’esoscheletro liberale. Ne viene fuori un minestrone di idee che battezza “Oggettivismo”: difesa dell’esistenza della realtà, libero mercato, persino una “estetica” randiana (che esalta, fra le altre cose, Rachmaninoff e Tchaikovsky, e siamo tutti d’accordo, ma al prezzo di liquidare Bach, Beethoven e Mozart come minori).
Il pezzo forte de La fonte meravigliosa è l’arringa finale con la quale il protagonista, Howard Roark, difende se stesso dall’accusa di aver distrutto un edificio da lui progettato e adulterato in fase di costruzione (secondo Popoff, Roark esibisce alcuni tratti del “nuovo ebreo” sognato dai sionisti). L’uomo creativo è proprietario delle opere del suo ingegno e può farne quel che vuole, non è costretto a sottostare al preteso interesse della collettività. Le regole degli studios esigono che ogni parola sia giustificata alla perfezione e quindi Rand, qui nella veste di sceneggiatrice, le rivede una per una e ne aggiunge altre, col risultato di farne il monologo più lungo della storia di Hollywood. Gary Cooper fatica a memorizzare i cinque minuti e mezzo di discorso e pertanto la scena deve essere registrata in più riprese. Ma l’arringa di Roark è nulla rispetto alle novanta pagine di discorso radiofonico che John Galt pronuncia in Atlas Shrugged (qui una più maneggevole versione in 964 parole). È soprattutto quest’ultimo però a far sì che per una generazione di militanti conservatori e libertari negli Stati Uniti “it usually begins with Ayn Rand”, di solito si comincia con Ayn Rand. Il suo “sistema” difende la legittimità dell’economia di mercato e lucida le parole d’ordine dei Padri fondatori, ma si avverte l’influenza di quello che è probabilmente l’unico filosofo che Rand abbia davvero studiato: cioè Nietzsche. Con parole che hanno il sapore di quelle del grande tedesco, Rand rifiuta l’altruismo, la retorica del sacrificio, e di conseguenza tutte le convenzioni sociali che da essa dipendono.
Per anni Atlas Shrugged, romanzo di fantascienza ferroviaria, è stato il secondo libro più venduto dopo la Bibbia negli Stati Uniti, è tornato di moda come reazione ai bail out di Bush, alla riforma della sanità di Obama e a sussidi di Biden, superando le dieci milioni di copie. Con Atlas Shrugged Rand diventa ricca (“l’unico vantaggio della povertà”, dice, “è che se ne esci la differenza è meravigliosa”) e popolare (viene intervistata più volte in televisione da Mike Wallace e da Alvin Toffler per PlayBoy). Per diffondere il suo “Vangelo del successo”, si affida alla “classe del ‘43”, ovvero ad alcuni ragazzi che si sono invaghiti del suo pensiero con La fonte meravigliosa. Due di questi, Nathaniel e Barbara Branden, sono le pietre su cui costruisce la sua chiesa. Nathaniel, poi una delle figure centrali nel movimento di psicologi che lavorano sul concetto di autostima, gestisce il Nathaniel Branden Institute, dedicato a divulgare l’opera di Ayn Rand. Barbara ha l’idea di registrare conferenze e lezioni su audiocassetta, per venderle in tutto il Paese.
Nathaniel ha venticinque anni meno di Alissa-Ayn, questa se ne innamora, dichiara ai rispettivi partner, Frank e Barbara, che essendo lei e il discepolo i due individui più razionali sulla faccia della terra è assolutamente naturale che abbiano una relazione (per Rand, non esistono moti del cuore che non segnalino idee e preferenze razionali), ma tutto viene tenuto segreto, perché che una signora si porti a letto un ragazzo che potrebbe essere suo figlio nell’America degli anni Cinquanta non sta bene. A un certo punto Nathaniel si stufa dell’amante, con la moglie ormai sono fratello e sorella, si innamora di una modella. È una tempesta che fa crollare l’istituto e pure l’oggettivismo. Sul triangolo e le sue implicazioni, Barbara scriverà The Passion of Ayn Rand da cui nel 1999 viene tratto un film in cui Helen Mirren interpreta Ayn.
L’atea Rand era già stata pesantemente criticata dalla principale rivista conservatrice, la National Review. Il suo direttore, Bill Buckley, coglie la palla al balzo: “e questi sono quelli che volevano portarvi al Nirvana”. L’allontanamento di Branden è l’ultima di una lunga serie di “purghe”. Se Rand offre a una generazione di ragazzi anticonformisti il conforto di una “filosofia che ha una risposta per tutto”, nello stesso tempo rifiuta il dialogo, si spiega attraverso una serie di monologhi che non ammettono contraddittorio. Più si allontana dal suo, più Rand si inalbera in affermazioni improbabili. Inizialmente, e le andrebbe reso merito, è contraria all’intervento in Vietnam, perché uno dei (più ragionevoli) dogmi della sua filosofia è il rifiuto di far uso per primi della forza. Poi però arriva a sostenere che la guerra sarebbe condannabile solo in quanto atto di “altruismo”, perché l’unico sacrificio è quello degli americani morti sul campo. Prima di morire, riuscirà a dire, reagendo stizzita ad alcuni ex discepoli diventati pacifisti (in modo non incoerente con i suoi insegnamenti), che non c’è nulla di male se una democrazia invade o bombarda una non-democrazia.
Tutto questo per dire che si capisce bene perché in tanti faticano a prendere Ayn Rand sul serio. E tuttavia è ingeneroso sia ridurre l’intellettuale a vicende personali forse più infantili che scandalose sia liquidare il suo pensiero esaminandone solo le bizzarrie.
Rand è stata davvero un grande testimone del secolo, che merita di essere letta se non altro per capire che effetto la Rivoluzione abbia fatto a una ragazza borghese, brillante e intelligente, alla quale fu strappata ogni certezza sul proprio futuro. Il suo memoir romanzato è Noi vivi, dal quale fra l’altro esiste un adattamento cinematografico diretto da Goffredo Alessandrini, sceneggiato da Corrado Alvaro e Orio Vergani e con nel cast il meglio del cinema italiano dell’epoca: Alida Valli, Fosco Giachetti, Rossano Brazzi.
Popoff offre sulla vicenda biografica di Rand dettagli interessanti. La minoranza ebrea di San Pietroburgo era minuscola, il 3%, ma assai affermata, nella finanza, nel giornalismo, nella cultura, nelle scienze. Il nonno materno di Alisa era un sarto e commerciante d’abbigliamento. La sua famiglia viveva in un ampio appartamento sulla Prospettiva Nevsky, poi sequestrato dai bolscevichi. I suoi sette figli, inclusa la mamma di Alisa, ebbero tutti una buona istruzione.
Sia la famiglia materna che quella paterna avevano scelto l’assimilazione, come la gran parte della comunità ebraica di San Pietroburgo. Del padre, uomo riservato e reticente a mettere per iscritto notizie su di sé, si sa poco, se non che era nato a Brest-Litovsk. Quando la figlia gli inviò copia de La notte del 16 gennaio, la sua piece teatrale, rispose con grande orgoglio ricordando che sia “tuo nonno che il tuo bisnonno erano avvocati”. La piece riguarda un caso di omicidio e il finale viene deciso ogni sera da una giuria popolare (è andata in scena anche a Milano qualche anno fa, giudice Platinette). Alisa aveva due sorelle. Suo padre, Zinovy, era farmacista. A un certo punto arrivò a gestirne una, di cui sarebbe diventato comproprietario, sulla Prospettiva Nevsky, e prese casa al piano sopra. Da quell’appartamento
si vedeva la piazza Znamenskaya [ora Vosstaniya], dominata dal monumento equestre ad Alessandro III. Dietro c’era la chiesa della Madonna del segno, con le sue cupole verdi. Dall’altra parte della piazza c’era la stazione Nikolaevsky, che collegava San Pietroburgo con Mosca, Varsavia e altre città. Come Rand avrebbe scritto in Noi vivi, le porte della città si aprivano sulla piazza Znamenskaya. La sua fascinazione per i treni e le ferrovie dev’essere cominciata qui: la famiglia visse vicino alla stazione per almeno otto anni.
Popoff sottolinea come la scelta dell’assimilazione e gli interessi economici abbiano tenuto i Rosenbaum a San Pietroburgo nonostante l’affaire Beilis, che può essere considerato la variante russa dell’affaire Dreyfuss. Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio della prima guerra mondiale, si stima che abbiano lasciato il Paese qualcosa come dieci milioni di ebrei (la più parte dei quali, non potendolo sapere, andò a mettere la testa nelle fauci del lupo in Germania). Alisa crebbe “in un grande clan ebraico”. Parte della famiglia (la zia materna e il marito, per esempio) era osservante. Il nonno parlava yiddish e guidava la famiglia nelle preghiere, i genitori, per quanto laici, osservavano la Pasqua ebraica e seguivano le prescrizioni alimentari. La famiglia, com’era uso, preparò a casa Alisa alla scuola superiore. Madre e figlie prendevano lezioni d’inglese. Alisa imparò male a pronunciare alcune parole allora e non si scrollò più di dosso l’accento e gli errori.
Popoff attribuisce grande importanza al primo viaggio di Alisa con la famiglia, all’età di otto anni. A pochi mesi dallo scoppio della prima guerra mondiale, i Rosenbaum visitarono Vienna, la Svizzera, Parigi e il Sud della Francia. La guerra mise fine “al mondo razionale e prevedibile che Alisa aveva conosciuto”, l’età dell’oro della sicurezza come la chiama Stefan Zweig: quel mondo senza passaporti e senza frontiere che la generazione del secondo dopoguerra cercò di ricostruire (e che adesso i loro figli stanno provando in tutti i modi a distruggere). Durante la guerra San Pietroburgo accolse centinaia di migliaia di ebrei provenienti dal confine occidentale. Per Alisa, secondo Popoff, si trattò del primo incontro con ebrei diversi da quelli assimilati e colti ai quali era abituata e ne trasse “un’ostilità perenne per gli uomini con la barba”.
Alisa studiava al liceo Stoyunin, iniziativa di brillanti pedagoghi simil-“montessoriani”. “Fra le migliori scuole private per ragazze, il ginnasio era noto per il suo approccio liberale e individualista all’insegnamento, Non seguiva i programmi ministeriali: gli studenti potevano scegliere corsi elettivi e non avevano compiti a casa”. Fra le altre studentesse, la nipote di Rimsky-Korsakov, la sorella di Shostakovich e la sorella di Nabokov (di cui Alisa divenne amica al terz’anno).
La caduta dello zar e l’avvento di Kerensky, cui anni dopo avrebbe mandato copia dei suoi libri, parvero alla giovane Alisa una manifestazione “della lotta per la libertà… e pensavo fosse magnifico”. Poi arrivò la Rivoluzione.
A metà del 1918 soldati armati fecero irruzione nel negozio di Zinovy Rosenbaum e gli dissero che veniva nazionalizzato. Un sigillo rosso venne impresso sulla porta del negozio, lasciando la famiglia senza proprietà. Alisa ricorderà per sempre l’episodio come emblematico della natura del comunismo. Zinovy perse più che la sua proprietà: perse i suoi diritti politici, dal momento che gli appartenenti alle classi possidenti diventavano “ex persone”.
Anche la scuola di Alisa venne nazionalizzata (il socialismo, dirà, si basa sulla promessa di un saccheggio universale), trasformata in un istituto di avviamento al lavoro, aperta ai maschi, sottoposta ai programmi ministeriali. Nel nuovo anno scolastico, il posto lasciato libero da Alisa sarebbe stato preso dal futuro compositore Dmitri Shostakovich.
La madre di Alisa provò a suggerire al marito di emigrare ma egli credeva, come molti, che i bolscevichi non sarebbero durati. Quando, nell’estate del 1918, la sorella minore, Natasha, contrasse la tubercolosi, scelsero di spostarsi a Sud. La meta era Odessa, il viaggio impossibile.
Per arrivarci avrebbero dovuto passare per l’Ucraina, controllata da gruppi militari e paramilitari in conflitto fra loro. C’era l’armata bianca, antibolscevica, composta di ex ufficiali zaristi, molti dei quali antisemiti; c’erano i nazionalisti ucraini di Simon Petliura, che organizzavano pogrom; gli anarchici di Nestor Machno e alcune armate contadine coi loro signori della guerra locali. Anche queste si macchiavano di violenza antisemita, che raggiunse livelli mai visti.
I Rosenbaum passarono comprensibilmente il meno tempo possibile in Ucraina (dove si calcola vennero ammazzati in quegli anni circa 150 mila ebrei) e ripararono in Crimea, come molti altri ebrei che fuggivano dalla violenza ucraina, alcuni dei quali pronti a prendere la via della Palestina. Lì Zinovy aprì una piccola farmacia e Alisa fece un anno di liceo. E lì, frequentando la biblioteca, incontrò, secondo Popoff, quegli autori romantici (Hugo, Schiller, Rostand e Walter Scott) che avrebbero rappresentato il suo “canone”. Fu sempre in Crimea che un giorno Alissa scelse di diventare atea. Lo fece, spiegò poi, sulla base di argomenti di natura logico-razionale ma, suggerisce Popoff, è più probabile che si trattasse di una reazione alle atrocità che aveva conosciuto. Se al mondo non c’è un brandello di giustizia, come fa a esistere Dio?
Rientrarono a San Pietroburgo l’anno dopo. Zinovy fu costretto a registrarsi e cercare impiego come “idraulico”, anche se per anni continuò a coltivare la speranza che gli fosse restituito il negozio (non avvenne neanche con la NEP). Nel 1921 Alisa sarebbe entrata al Collegio delle Scienze, studiando così all’università, aperta dai bolscevichi alle donne. Riuscì a entrare perché la madre si era iscritta al sindacato. Gli anni della discesa della sua famiglia nella povertà per Rand rappresentarono sempre “la differenza fra capitalismo e socialismo. Erano anni in cui il denaro perse il suo valore e la gente tornò al baratto, le persone erano emaciate e giravano vestite di stracci”. Ma era pure il periodo in cui Alisa si formò, in un ambiente intellettuale vivace. Popoff sottolinea l’importanza, per la futura scrittrice, della lettura di Dostoevskij: di cui non apprezzava certo l’esistenzialismo cristiano ma che le fu maestro di intreccio e trama. Su impulso di una cugina, lesse Così parlò Zarathustra.
Alisa frequentò l’Istituto del mondo vivente, ritenuto da principio importante dai rivoluzionari come scuola di retorica ma poi attaccato da Trotzky con l’accusa di “formalismo”. Qui, secondo Popoff, Rand si trovò ad ascoltare alcune lezioni di Evgeny Zamjatin, nelle quali questi da un lato esortava l’intellighenzia russa a difendere i diritti individuali e dall’altra suggeriva di mescolare realismo e fantasia affinché “il romanzo d’avventura sia investito di una sintesi filosofica”.
Ayn Rand fece poi esattamente questo. Il suo secondo romanzo, Anthem, è una distopia simile al Noi di Zamjatin, anche se quest’ultimo (come poi Orwell, che aveva letto tutt’e due i romanzi) immagina uno Stato totalitario tecnologicamente avanzato mentre Rand pensa che il primo risultato di un sistema totalitario sia necessariamente il regresso economico e tecnologico. Noi venne subito censurato in Unione Sovietica ma l’autore passò il manoscritto ad amici occidentali e l’edizione inglese uscì nel 1924. È probabile che Rand l’avesse incrociato. Che la giovane Alisa avesse conosciuto Zamjatin è un’ipotesi che Popoff avanza per la prima volta, basandosi appunto sulle attività dell’Istituto del mondo vivente.
Il lavoro di Popoff illumina le relazioni di Rand con la cultura russa e con quella ebraica, entrambe da lei apparentemente rifiutate. Racconta le rocambolesche avventure di Alisa-Ayn appena giunta negli Stati Uniti, restituendo bene la determinazione di una ragazza pronta a tutto per realizzare un sogno improbabile: diventare scrittrice in una lingua che conosceva appena. Entra anche nella questione annosa del rapporto fra Rand e la sua famiglia. Spesso la si è criticata per aver dimenticato, lei così anticomunista, il padre e le sorelle rimaste in Russia. In realtà i contatti furono frequenti, anche se non sempre affettuosissimi, fino alla seconda guerra mondiale. Poi Rand ne perse le tracce, con dolore.
L’aver ritrovato, per puro caso, la sorellina Nora negli anni Settanta, unica superstite della famiglia all’assedio di Leningrado, fu per lei occasione di grande gioia. Ma la sorella e il marito erano invecchiati in Russia e avevano assistito a molti magnifici atti di altruismo, per salvare una persona in pericolo durante la guerra o le tante stagioni delle purghe. Ayn Rand non seppe trattenersi dal cominciare a predicare la sua fede a una sorella che era sì orgogliosa di lei, ma non la vedevano da mezzo secolo. Il rapporto si raffreddò come si era ravvivato e quando i due ripartirono da New York si interruppe. Ayn sarebbe morta di lì a poco. La sorella, a New York, cercava i libri di Solgenitsin, che aveva appena trovato rifugio in Occidente.
Alexandra Popoff, Ayn Rand: Writing a Gospel of Success, New Haven, Ct, Yale University Press, 2024, pp. 291.
Donna di grande intelligenza, e intuito di business. Ma pallosa come può essere una persona enormemente dotata di "pallosità", talvolta il talento è un peso enorme, se si manifesta così.
Quando parla dell'imprenditore "la cui filosofia è il concetto di uomo come individuo eroico: con la sua felicità come obiettivo morale nella sua vita, con il successo come la sua attività più nobile e con la ragione come suo unico assoluto"...
Una frase presa a caso da “La rivolta di Atlante” (Atlas Shrugged), una trilogia di 1.400 (!) pagine tutte più o meno così. Negli USA vende centinaia di migliaia di copie. In Europa, di fatto non esiste. Vien da pensare che gli europei, con tutti i loro difetti, hanno almeno il buon gusto estetico di concedere il superamento delle 1.000 pagine solo ai Cervantes, Tolstoi, Balzac…