Settimana scorsa siamo andati a votare. Da queste elezioni è emerso un verdetto chiaro, un vincitore netto. Era, peraltro, un vincitore annunciato. E’ parimenti un vincitore sgradito a gran parte delle persone che animano il dibattito pubblico nel nostro Paese. Forse per questo, più che in altre occasioni, in molti hanno biasimato la crescita dell’astensionismo: hanno votato circa 29 milioni su oltre 46 milioni di aventi diritto. C’è quindi un 36% di italiani che ha deciso di non votare. Gli astenuti sono “il primo partito” soprattutto nel Sud del Paese.
Il non-voto viene interpretato come un segnale di scarsa fiducia nelle istituzioni e di disinteresse nei confronti della cosa pubblica. Capita di rado che lo si consideri come una scelta legittima.
Sicuramente che tante persone preferiscano non andare a votare qualcosa segnala, ma non è così scontato che cosa, di preciso. Negli Stati Uniti i tassi di astensione sono storicamente elevati: il che è stato spesso considerato un indice della solidità delle istituzioni di quel Paese, “non sono preoccupato e dunque non vado a votare”. In democrazia esistono macchine costruite per conquistare gestire il potere, i partiti politici, il cui primo compito è spingere i propri sostenitori ad andare al seggio. Se un’astensione più alta significa una minore capacità di mobilitazione da parte dei partiti, non è necessariamente una brutta cosa. Può voler dire che messaggi aggressivi, catastrofici, quelli che più facilmente spingono le persone a mettersi in moto, non “passano”: che i capi politici non riescono, per esempio, ad alimentare una paura diffusa su che cosa potrebbe accadere in caso vincesse il loro avversario. Anche questo, se l’avversario è un gatto selvatico che solo la propaganda può far passare per un giaguaro, non è detto che sia un male.
Il biasimo per chi non va a votare è probabilmente solo un’altra manifestazione di un fenomeno molto comune, che in questa nostra epoca sta assumendo contorni patologici: l’incapacità di un certo segmento della popolazione (paradossalmente, quello che crede di saperne di più) di comprendere quel che passa nella testa di tutti gli altri. Per i primi andare a votare è parte della loro identità: per potersi raccontare come vogliono raccontarsi, soprattutto a se stessi (ovvero come cittadini, come partecipanti attivi alla vita collettiva, come persone informate e colte), devono compiere quel piccolo gesto. E’ come mangiare in un certo modo o vestirsi in un certo modo. Segnala, questo sì senza ambiguità, qualcosa di noi.
Perciò votare ci sembra un gesto così naturale e scontato. Ma non lo è affatto. Esso implica, per chiunque lo faccia, recarsi al seggio, magari prendendo l’automobile; fare la coda; essere aggiornati su chi si presenta, che non vuol dire conoscerne i “programmi” ma almeno associare volti e simboli; avere pensato, almeno un poco, a quale scelta esprimere. Nulla di tutto questo è scontato e le persone possono preferire fare altro per le ragioni più diverse: perché non sono soddisfatte dell’offerta politica o perché non vogliono sentirsi complici di un “sistema” che disapprovano, perché non si aspettano nulla dalla politica o perché non sentono di averne bisogno, perché non hanno voglia d’informarsi o semplicemente perché quella domenica c’è il sole e vanno al mare o al contrario diluvia e preferiscono starsene a casa a fare binge watching.
Le preoccupazioni sull’astensionismo, nell’Italia di oggi, coincidono con una società sempre più frammentata, nella quale mancano gruppi e valori capaci di aggregare. La questione, allora, è questa, non di per sé il fatto che le persone scelgano di non votare.
Ciò su cui invece bisognerebbe andare molto cauti è l’idea, abbastanza comune, che una partecipazione politica inferiore implichi una peggiore qualità delle decisioni. A parte il fatto che un tasso di astensione inferiore non avrebbe cambiato, domenica scorsa, né le liste né quindi la composizione del nuovo parlamento, se avessero votato più persone non necessariamente costoro avrebbero ponderato meglio di altri la propria scelta.
In The Ethics of Voting, il filosofo Jason Brennan sostiene semmai che esista un “dovere di non votare”, un obbligo morale che coinvolge quelle persone che semplicemente non dedicano alle scelte collettive sufficiente attenzione da tracciare una x “a ragion veduta”. “Dal mio punto di vista”, scrive Brennan, “gli elettori non sono costretti a votare, ma se lo fanno, essi debbono a se stessi e agli altri di essere adeguatamente razionali, privi di pregiudizi, retti e informati circa i propri convincimenti politici”.
Un elettore è come un chirurgo. Il paragone è spiazzante, ma non insensato: nessuno obbliga nessuno a studiare medicina, nessuno costringe nessuno a esercitare il diritto di voto. Ma, in un caso e nell'altro, le azioni intraprese da un chirurgo piuttosto che l'esito di un'elezione hanno conseguenze sugli altri.
L'argomento di Brennan parte dal "principio delle mani pulite": ciascuno di noi ha l'obbligo di non partecipare ad attività che sono dannose alla collettività, quando astenersi da esse non impone rilevanti costi per sé.
Un “cattivo voto”, che per Brennan è un voto non ponderato, non cambia l'esito di un'elezione: nessuna singola preferenza può farlo. L’irrilevanza del voto individuale, unita ai compiti pressoché illimitati delle nostre istituzioni, dissuade le persone dall’informarsi: neppure il più attento di noi conosce davvero le posizioni dei diversi partiti su tutti i temi che andranno a toccare, nel corso della legislatura. Chi pensa di avere informazioni “adeguate” con tutta probabilità si illude, meglio allora non informarsi affatto?
The Ethics of Voting considera il voto superficiale una forma di “inquinamento elettorale” da combattere, non da incentivare. Dondoliamo sul filo della provocazione. Che non necessariamente una votazione più partecipata conduca a migliori decisioni, invece, dovrebbe essere evidente. Anche perché più elettori significano maggiore capacità di mobilitazione da parte dei partiti e maggiore capacità di mobilitazione può voler dire non solo radicamento territoriale o la percezione diffusa e spontanea di dover scegliere su grandi temi, ma più banalmente una propaganda più efficace.
Quanto all’elettore spassionato, informato e riflessivo, temo appartenga allo stesso mondo dei governanti razionali e benevoli. Sono creature della terra di mezzo dei filosofi, sconosciute alla democrazia reale.
Jason Brennan, The Ethics of Voting, Princeton NJ, Princeton University Press, 2012, pp. 216.