La seconda delle due interviste che Mario Vargas Llosa fa a Jorge Luis Borges data il 1981. All’epoca Argentina e Cile bisticciavano per tre isole nel canale di Beagle. Il grande scrittore argentino, pur essendo nipote di un militare (e rivendicandolo), prende una posizione pacifica, avvicinandosi a “Bertrand Russell e Gandhi e Alberdi e Romain Rolland” e alle loro ragioni per opporsi alla guerra. Borges spiega a Vargas Llosa che “se ammettiamo una guerra giusta, una soltanto, questo apre già la porta a qualsiasi guerra, e non mancheranno le ragioni per giustificarla, soprattutto se le inventano e imprigionano come traditori quelli che la pensano diversamente”. Alberdi è Juan Bautista Alberdi (1810-1884), grande letterato e giurista, ispiratore della Costituzione del 1853 e autore de El crimen de la guerra.
Alberdi è un autore poco noto al di fuori dei confini argentini, ma dalla produzione ampia e affascinante. Le sue coordinate intellettuali sono quelle del liberalismo classico.
Alberdi ci ha consegnato una delle più vigorose denunce dei guasti della guerra (mai “giusta”, solo artatamente “giustificata”) e del militarismo. In particolare ha colto perfettamente come le devastazioni della mentalità che quest’ultimo produce e consolida non si fermino al campo di battaglia, ma avvelenano cultura e società civile. La conseguenza è che “come nell’esercito, l’individualità dell’uomo scompare nella massa e lo Stato diventa come l’esercito, un ente organico, una unione composta di unità che sono diventate le molecole di questo grande e unico corpo che si chiama lo Stato”.
La pervasività della mentalità militarista era ben chiara ad Alberdi:
Non tutte le operazioni di guerra si compiono grazie agli eserciti e sui campi di battaglia. Senza nemmeno menzionare i dei blocchi e le interdizioni usate per disturbare il nemico; senza nemmeno parlare della guerra di propaganda, della denigrazione e dell'insulto da parte della stampa e della parola, all'interno e all'esterno del paese in guerra; c'è la guerra di di polizia, la guerra dello spionaggio e della denuncia, la guerra dell'intrigo e dell'inquisizione segreta, della persecuzione sotterranea, in cui viene impiegato un numeroso esercito di soldati occulti, di tutti i sessi, di tutti i ranghi, di tutte le nazionalità, che portano più scompiglio nella società belligerante che le schegge di un cannone, e che costa più di un intero corpo d'armata.
C'è anche la guerra della macchinazione, della corruzione, in cui i milioni di pesos costituiscono le munizioni di guerra, e l'intero movente, l'intera anima. C'è anche la guerra di demoralizzazione, di dissoluzione, di smembramento, di decomposizione sociale del paese belligerante, che fa marcire le rimanenti generazioni rimaste in vita, e la cui corruzione raramente non raggiunge il corruttore stesso, cioè il Paese e il governo che impiegano tali mezzi di guerra.
Alberdi non coltivava l’utopia di un mondo senza guerre. Sapeva bene che la guerra non si può abolire, ma, come molti liberali della sua epoca, era convinto potesse diventare meno frequente e distruttiva grazie alla libertà e all’evoluzione della cultura diffusa. Questa libertà è anche e soprattutto la libertà degli scambi, dei contatti commerciali fra esseri umani in diversi Paesi, che può diventare una sorta di educazione alla pace e alla comprensione della diversità.
Per completare la sua grande opera di unificazione e pacificazione del genere umano, il commercio ha bisogno di una sola cosa, come la religione cristiana: che gli sia permesso di godere della sua più piena e completa libertà. Conta poco che il suo genio abbia ispirato le invenzioni della ferrovia, del piroscafo, del telegrafo elettrico, del cambio, del credito, e che egli possegga in questi strumenti la armi in grado di porre fine alla guerra, se gli si legano le mani e gli si impedisce di usarle.
La libertà del vapore, la libertà dell'elettricità, significano le libertà del commercio o della vita internazionale, come la libertà di stampa, che è la ferrovia del pensiero, significa la libertà delle idee.
Per Alberdi era necessario che questi cambiamenti riverberassero anche nella cultura diffusa, nelle professioni, nei mestieri, nelle figure che le società scelgono di riconoscere come “importanti”. Ricordava che la gloria non esiste né si distribuisce “per decreto”. I popoli reggono le chiavi del loro destino. Possono educarsi alla libertà, per esempio scegliendo di non erigere più monumenti come quelli con cui “i re glorificano i complici delle loro devastazioni”, e invece inaugurare statue per i campioni dell’economia e della scienza, che hanno messo “le forze della natura al servizio dell’uomo”. Onoriamo il commercio e la scienza, per combattere i nostri istinti peggiori.
La pace, come la libertà, richiede una educazione e “le condizioni dell’uomo di pace sono le stesse dell’uomo di libertà. La prima di esse è la mansuetudine, il rispetto dell’uomo all’uomo, la buona volontà che è la volontà che cede, che transige, che perdona. Non c’è pace in terra senza uomini di buona volontà”.
Leggere Alberdi è una lettura tonificante e deprimente assieme, ci rammenta che c’era più lucidità che utopia dietro il sogno di un mondo finalmente pacificato dai commerci, al quale effettivamente ci siamo più avvicinati negli ultimi trent’anni che mai nella storia. Ma ci ricorda anche quanto sia fragile e quanto sia facile smarrire la cognizione del suo valore, in preda a demoni che non riusciamo a esorcizzare.
P.S. Chiedo perdono per le pessime traduzioni dallo spagnolo, che sono mie.
Juan Bautista Alberdi, El crimen de la guerra, 1870, varie edizioni.