In questo 2023 Adam Smith festeggia il trecentesimo compleanno (fu battezzato il 5 giugno, si usava il calendario giuliano, ragion per cui alcuni ammiratori lo ricordano il 16). Fra gli studiosi la sua reputazione è alle stelle: la smithologia è un’industria fiorente. Fra i politici gode di pessima fama, Smith difese il libero scambio contro il mercantilismo, dimostrando che quest’ultimo si reggeva su presupposti contraddittori e su mitologie confuse. Ma gli argomenti di Smith, purtroppo, sono serviti, nella migliore delle ipotesi, solo a contenere pressioni che sembrano inarrestabili in qualsiasi Stato moderno. I grandi interessi economici (mercantili, manifatturieri, finanziari) si saldano con il potere politico per proteggersi dalla concorrenza, sia quella che già esiste sia quella che un giorno potrebbe esistere. Ovviamente lo fanno nascosti dietro un rosario di buone intenzioni: i diritti dei lavoratori, l’ambiente, la tutela del consumatore, ogni tanto persino la politica della concorrenza stessa.
Con questo libro, Paul Sagar esamina Smith come pensatore politico (non come filosofo morale e nemmeno come “primo economista”) e vuole dimostrare come il suo obiettivo polemico fosse la plutocrazia mercantile. Non conosco Sagar di persona ma dev’essere un tipo insopportabile: non c’è pagina in cui non accusi chi prima di lui s’è occupato di Smith, tutti o quasi, di non averci capito un accidente. E’ un peccato, perché con questi sfoghi caratteriali finisce presto per annoiare, mentre il suo saggio è pieno di considerazioni interessanti e di intuizioni preziose, che ci aiutano davvero a capire meglio Smith
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Sagar dedica grande attenzione al terzo libro della Ricchezza delle nazioni, nel quale Smith tratteggia la transizione dal feudalesimo agli Stati nazionali e il loro progressivo accentramento a partire dalle conseguenze inintenzionali di comportamenti che avevano tutt’altro scopo. L’amore per il lusso dei signori feudali e il rafforzarsi della classe mercantile spiegano il consolidarsi delle città, i miglioramenti in agricoltura (opera di piccoli proprietari o di mercanti che acquistano proprietà terriere, non di grandi proprietari che le ereditano), il simmetrico rafforzarsi dei privilegi dei centri urbani e dei sovrani nazionali.
Per Smith “il governo civile, in quanto istituito per la salvaguardia della proprietà, è in realtà istituito per la difesa dei ricchi contro i poveri o di coloro che hanno un poco di proprietà contro coloro che non ne hanno”. Nello stesso tempo, “la libertà, la ragione e la felicità umana” possono fiorire “soltanto dove il governo civile è in grado di proteggerle”.
Sagar non accetta che Smith possa essere in qualche modo annesso alla tradizione del repubblicanesimo. Quest'ultimo si basa su una concezione della libertà che affonda le sue radici nei classici e che la colloca saldamente all'interno delle mura della città antica. I repubblicani pensano alla polis e credono che la libertà coincida con la partecipazione attiva dei cittadini ai suoi affari. La chiave per la difesa di una società libera sarebbe la coltivazione delle virtù civiche.
Smith non prende questa strada, perché “come Hume e Montesquieu, Smith vedeva la direzione della politica europea stabilita dalle monarchie moderne: le piccole repubbliche meridionali avevano già fatto il loro tempo - il futuro apparteneva ai grandi Stati del Nord Europa”. Ma, quel che più conta, egli comprese che “la città antica assicurava la libertà a una parte ristretta della popolazione totale sfruttando spietatamente un gran numero di schiavi”. La libertà di cui si godeva attraverso la partecipazione politica era comprata dal lavoro degli schiavi e dalla separazione tra cittadinanza e produzione: gli uomini liberi potevano occuparsi del governo, perché altri erano costretti a produrre ciò di cui avevano bisogno.
Sagar ragiona sulla versione di Smith della “libertà dei moderni”, per usare una locuzione che dobbiamo a Benjamin Constant, il quale conosceva bene il pensiero degli scozzesi. Centrale, in quest’ambito, è il concetto di rule of law - e fin qui non ci sarebbe nulla di sorprendente. Ma la locuzione è sfuggente e in qualche modo bisogna precisarla. Nel tenere prudentemente lontano Smith da interpretazioni “repubblicane”, Sagar sottolinea come egli non pensasse affatto che “per essere liberi bisogna esercitare un controllo sulle leggi sotto cui si vive”. Cioè in qualche modo partecipare alla stesura delle norme.
Il diritto, spiega Sagar, è per Smith invece un insieme di norme impersonali, che per i suoi scopi funzionano tanto meglio quanto meno sono associate a un “autore” individuale. Al contrario, le norme non sono “direttamente scritte o controllate dalla popolazione, o addirittura da individui viventi in generale, ma... l'eredità cumulativa di diversi secoli di precedenti e consuetudini”. Per Sagar, Smith aveva una preferenza netta per la common law, che riteneva uno dei “fattori di successo” del modello inglese, proprio perché non “legislata” da nessuno ma frutto di un lungo processo evolutivo.
Nel libro c’è molto altro, e molto di discutibile, ma questa mi pare una considerazione non irrilevante. Del saggio di Sagar tutto si può dire tranne che non sia ambizioso. E dimostra quanto vivace e interessante possa essere ancora la ricerca sul pensiero di Adam Smith, a trecento anni dalla nascita.
Paul Sagar, Adam Smith Reconsidered: History, Liberty, and the Foundations of Modern Politics, Princeton, Princeton University Press, 2022, pp. 248