Per tirar di sciabola contro il fantasma del “neoliberismo”, negli ultimi anni un’agguerrita pattuglia di studiosi ha riscoperto lo Stato imprenditore. Sia “a sinistra” (Mazzucato, Rodrik) che “a destra” (negli Usa, il gruppo dell’ “American Compass” e Oren Cass). Non è questo il luogo per entrare nel merito di quegli studi. Siccome la strategia di quegli autori è stata cercare successi della “politica industriale” non nei Paesi che la “politica industriale” la hanno abbracciata apertamente, ma negli Stati Uniti, dalla rivalutazione dello Stato imprenditore si passa inevitabilmente all’esaltazione dell’esercito imprenditore: il GPS, per intenderci, è tutt’ora gestito dal governo statunitense. Anche in Europa, ci stiamo muovendo in quella direzione. Ci siamo convinti che, pur di aumentare la spesa, vale la pena persino di accrescere la spesa militare. Conta la geopolitica, che ci obbligherebbe a fare passi importanti in quella direzione, ma anche i presunti effetti spillover. Se i cannoni creano “posti di lavoro di qualità”, perché no?
In misura maggiore in misura minore, questo punto di vista si fonda su una certa lettura della storia statunitense (e solo di quella). Il grande sviluppo postbellico degli Stati Uniti sarebbe stato debitore al grande sforzo messo in campo con la Seconda guerra mondiale. In particolare, ormai è quasi un luogo comune che la necessità di vincere la guerra abbia portato a mettere a punto tutta una serie di nuove tecnologie e nuovi metodi produttivi, che in seguito avrebbero trovato più ampio utilizzo.
Alexander J. Field, storico economico della Santa Clara University, col suo The Economic Consequences of US Mobilization for the Second World War, prende di petto l’ipotesi che la guerra sia stata una cavalcata trionfale, per l’economia americana. Il suo libro è una miniera di informazioni.
Che però rischiano di non essere nemmeno comprese, in un contesto come l’attuale. Negli ultimi anni abbiamo imparato a considerare le emergenze come qualche cosa di potenzialmente vantaggioso. “Guai a sprecare una buona crisi”. Aiuterebbero a mobilitare risorse al servizio di un grande obiettivo, a smuovere l’economia dall’inerzia. La logica dei cantori dello Stato imprenditore è proprio quella: darsi “grandi obiettivi” da realizzare (magari non proprio battere i tedeschi o andare sulla Luna, ma il modello è quello) e ordinare i fattori produttivi per raggiungerli. Field suggerisce che la strada è più accidentata di quanto costoro non siano risposti a riconoscere.
In particolare, le emergenze tenderanno a comprimere, almeno nel breve e medio termine, la produttività. Perché? Perché esse implicano lo spostamento di risorse (umane e finanziarie) dai loro impieghi precedenti ad altri, diversi. Non necessariamente il modo in cui i fattori produttivi sono combinati in un certo momento è quello “giusto”: i cambiamenti, della tecnologia o delle preferenze dei consumatori, inducono tutti i giorni a tanti, piccoli aggiustamenti. Quelli più radicali, lo sappiamo, tendono a essere dolorosi.
Ma costringere, per intendersi, lavoratori che sono abituati a realizzare automobili a fare carri armati, o munizioni, per tacere della necessità di riconvertire gli impianti, ne diminuisce la produttività, semplicemente perché essi ci metteranno del tempo a imparare a far cose che prima non sapevano fare. La conoscenza che mettevano in gioco, nel proprio lavoro, diventa in parte anacronistica.
Per Field,
la narrazione della produttività americana in tempo di guerra si è concentrata quasi esclusivamente sui recuperi di produttività che, alla lunga, si sono verificati. Questo significa ignorare gli shock negativi e le perdite associate all’alterazione della gamma dei prodotti e alla stasi intermittente della capacità, a loro volta dovute alla carenza e all’accaparramento di fattori scarsi quali materiali, componenti e talvolta forza lavoro.
Né, ovviamente, si può dimenticare la natura distruttiva della guerra: che uccide persone, altre le rende inabili al lavoro e distrugge capitale fisico, infrastrutture e stabilimenti. Il maggiore vantaggio americano, fra il 1940 e il 45, fu proprio quello di essere il Paese più lontano dal teatro degli scontri.
Sebbene la Seconda guerra mondiale abbia lasciato all’economia del paese fattori che hanno favorito la capacità produttiva del dopoguerra, il conflitto ha distorto l’accumulazione di beni capitali, scacciando gli investimenti nei settori dell’economia che non rivestivano un’importanza essenziale per lo sforzo bellico. (…) Il paese ottenne grandi risultati produttivi, ma essi non furono la conseguenza di un miracolo della produzione. Tra il 1941 e il 1948, in realtà, nel settore manifatturiero e in quello edilizio la produttività totale dei fattori diminuì e, complessivamente, questo indicatore crebbe più lentamente di quanto non fosse avvenuto tra il 1929 e il 1941.
Si potrebbe ribattere che, per quanto imprenditori e lavoratori siano stati costretti ad apprendere cose nuove, queste ultime nondimeno sono servite loro, in tempo di pace. Il saggio di Field dimostra con pazienza, esempio dopo esempio, che “dopo la guerra, buona parte delle tecniche apprese per la produzione di bombardieri B-24 e carri Sherman, così come gran parte dei macchinari specializzati prodotti per agevolare la produzione di armamenti, vennero gettati alle ortiche, conteggiati come perdite nette o enormemente svalutati perché il paese cessò di produrre gran parte dei beni del tempo di guerra”. Qualche osservatore malizioso potrebbe sospettare che il livello, ancorché infinitamente più basso, di mobilitazione resosi necessario con la guerra fredda si spieghi anche per continuare a sfruttare quel know how, ovvero per sostenere l’industria bellica. Come ha ricordato Robert Higgs, nel 1945 e nel 1946 la rapida smobilitazione militare portava le spese per la difesa a quello che sarebbe rimasto il livello più basso dei cinquant’anni successivi, ovvero il 4,3% del Pil (comunque tre volte il livello del 1939). Fra il 1948 e il 1989, la spesa per armamenti in media pesò per il 7,5% del Pil. Operando un po’ come una fisarmonica: a periodi di (relativa) smobilitazione seguivano momenti di rimobilitazione, come durante la guerra di Corea, la guerra del Vietnam o con le “guerre spaziali”. Nessuna di queste fasi di riarmo è stata considerata propedeutica a una stagione successiva di crescita economica.
Ad andarla a cercare, c’è sicuramente qualche innovazione dovuta all’esercito imprenditore, che poi ha trovato ampia applicazione civile. Field ci rammenta qualcosa di ovvio, che di questi tempi si tende spesso a dimenticare:
per quanto alcune innovazioni del tempo di guerra abbiano trovato applicazioni in tempo di pace, l’obiettivo preminente delle attività di ricerca e sviluppo era quello di vincere la guerra, il che, nella maggior parte dei casi, si traduceva nella realizzazione di metodi più efficienti per distruggere edifici, infrastrutture, macchinari e materie prime, oltre che mutilare, bruciare o uccidere soldati e civili nemici.
Un concetto chiave dell’economia è quello di costo opportunità. Che, semplificando, significa che il vero costo di un bene, di un servizio, di un’azione è la più allettante alternativa disponibile. Bisogna proprio pensare che il mondo sia hegeliano, per trovare nell’economia di guerra il segreto del capitalismo americano: perché per quanto, indubitabilmente, essa ha sviluppato alcune tecnologie che poi sono state inserite in prodotti realizzati e consumati in tempo di pace, sono molte di più le risorse che ha sottratto allo sviluppo economico.
Il libro di Field è un libro di casi, quello più rilevante è la produzione bellica di gomma sintetica, esaminato per lungo e per largo. Di norma lo si considera un miracolo dello sforzo bellico, mentre per l’economista dell’Università della California, “se prendiamo in considerazione il disegno del programma e i ritardi nella costruzione degli impianti, possiamo dire che è stato un vero miracolo che la sua attuazione non ci abbia fatto perdere la guerra”.
Particolarmente prezioso, soprattutto per i dibattiti odierni, è il capitolo dedicato a ricerca e sviluppo, anche perché altri studiosi hanno suggerito che nelle aree in cui maggiore sono stati gli investimenti militari durante la guerra, più alta è stata la registrazione di brevetti negli anni successivi la guerra. Field ricorda che, durante il conflitto, “per l’aviazione e la cantieristica, il tasso di registrazione di brevetti rimase stabile se confrontato al periodo prebellico, mentre diminuì nel caso della chimica, con riduzioni drastiche per i prodotti petroliferi, gomma e plastiche, strumentazione, metalli lavorati e altri macchinari, particolarmente se raffrontiamo il periodo 1941-1948 con il 1932-1940”. Mentre il numero di brevetti si riduce in quegli ambiti nei quali si smette di fare ricerca e sviluppo (per gli “automezzi, i brevetti concessi furono mediamente 2.411 all’anno tra il 1932 e il 1940, riducendosi a 1.393 tra il 1941 e il 1948”), nel settore dell’aviazione, in tutta evidenza particolarmente strategico, “i livelli durante la guerra e la smobilitazione furono pressoché identici a quelli dei sei anni precedenti”. I brevetti che vennero impiegati nella tecnologia bellica, sostiene Field, risalgono per la più parte agli anni Venti e Trenta.
Non è sorprendente. La produzione si svolge nel tempo, richiede tempo. Ci sono costi di adattamento, nel passare dal produrre un certo bene a realizzarne un altro. Bisogna risistemare i fattori produttivi, e cercare di renderli almeno altrettanto fecondi che in precedenza. L’innovazione produttiva ha bisogno di creatività quanto quella artistica o letteraria, ma non è qualcosa che si compia fra uno scrittore e un foglio di carta.
Per questi motivi, è più probabile che la guerra abbia rallentato, anziché accelerare, alcune innovazioni. “Gli Stati Uniti parteciparono alla Seconda guerra mondiale per meno di quattro anni: la mobilitazione venne attuata per 22 mesi. Per accreditare un’innovazione alla mobilitazione per la guerra, bisogna sempre chiedersi: cosa sarebbe avvenuto se la guerra non fosse scoppiata?”
The Economic Consequences of US Mobilization for the Second World War dovrebbero leggerlo tutti quelli che tendono a pensare che la produzione sia qualcosa di facile, di immediato, per cui agli annunci da parte di una qualche autorità corrisponde necessariamente un certo esito.
Per Field, “a dispetto dell’evidente disfunzionalità, un’economia fortemente regolamentata riuscì a produrre e distribuire quello che era necessario per sconfiggere le potenze dell’Asse”. La guerra (o l’emergenza) comprimono la logica della convenienza e spingono a fare qualsiasi cosa, “costi quel che costi”, per vincere. Il problema risiede nel pensare che ciò che in qualche momento è tristemente necessario possa essere anche ricondotto in qualche modo alla categoria dell’utile. Un’economia di guerra vede, per definizione, la subordinazione di tutti i fini all’unico obiettivo di imporsi sull’avversario. Proprio per questo, peggiora il livello di vita delle persone (che sono costrette a confrontarsi col razionamento) e l’efficienza dell’economia. Anche per questo uno dei saggi del Novecento, Ludwig von Mises, sosteneva che “una guerra vittoriosa è male anche per il vincitore”.
(Una versione di questo articolo è apparsa sul sito della rivista Il Mulino)
Alexander J. Field, The Economic Consequences of U.S. Mobilization for the Second World War, New Haven, Ct, Yale University Press, 2022, pp. 456.
Ammirevole lo sforzo di Mingardi di convincere gli inconvincibili che le spese militari non siano altro che macchine produttrici di inflazione, che un'economia che non ha bisogno di fare efficienza, tanto paga il governo (con moneta svalutata) ...
In realtà il problema è uno solo: che chi sostiene queste tesi non ha avuto i nostri genitori, che hanno passato "i migliori anni della loro vita (da 10 a 20) sotto le bombe, chiusi in casa per paura dei rastrellamenti e con un perenne senso di robusto appetito mai soddisfatto. I nostri genitori, adolescenti spauriti e affamati non hanno mai avuto bisogno delle zipline per produrre adrenalina (chi non ricorda noiosissimi pomeriggi al mare sotto l'ombrellone).
E quei pochi che hanno avuto la "fortuna" di lavorare nelle fabbriche militarizzate della TODT...beh...quelli è meglio non far loro sapere quanto è bbona l'economia dele guere (scusate la beceraggine, ma la rima ci vuole :-)!
Seguo il ragionamento con un unico alert. Oggi parte dello sforzo bellico si basa sulle nuove tecnologie. Forse il confronto andrebbe fatto con la stagione d’oro della nasa. Magari le conclusioni non cambierebbero, non so.