Per me, la data cerchiata in rosso sul calendario d’agosto è il 15. Non perché sia Ferragosto ma perché esce al cinema la seconda parte del primo episodio di Horizon, il grande Western corale di Kevin Costner. La prima parte l’ho vista e ancora non so se mi è piaciuta: magnifica la fotografia, troppe le storie, i cui fili andranno riannodati negli episodi successivi. Ma la grandezza del film di Costner è quella di tutte le storie raccontate bene: c’è sempre un paio di occhi azzurri nei quali si intuisce il lampeggiare del bene, uno sciocco calzato e vestito, una figura che sia pure tremebonda oltrepassa la soglia della malvagità. E tuttavia il racconto non è giudizio e chi ha voglia di seguirlo a un certo punto avverte quanto dolore c’è sulle spalle dei malvagi e ogni tanto persino quanta pigrizia può esserci nel cuore dei derelitti. In Horizon ci sono pure degli indiani sanguinari quanto i loro conquistatori.
Un’esperienza simile, ma della quale invece so per certo che mi è piaciuta, è leggere Willa Cather. Questo La morte viene per l’arcivescovo è un romanzo straordinario, che ricama sulla vita di due sacerdoti francesi realmente vissuti, Jean-Baptiste Lamy, vescovo di Santa Fe, e Joseph Projectus Machebeuf, vescovo di Denver. L’arcivescovo del titolo è Lamy, che diventa Jean Marie Latour mentre Machebeuf è padre Joseph Vaillant, nome omen. Fra i due c’è un’alchimia che ricorda quella di altre coppie letterarie: ben nato, colto, “che in ogni ambiente si trovava a suo agio, che era la cortesia in persona” eppure incapace “di stringer nuovi legami”, Latour; più semplice, dotato di una fede granitica e del gusto di suscitarla nei più umili, che “ovunque andava, non tardava a trovare amici che gli tenevano luogo di patria e di famiglia”, Vaillant. I due si conoscono dagli studi in seminario e vengono spediti a Santa Fe allorché, dopo la guerra messico-statunitense, il Nuovo Messico viene annesso agli Stati Uniti. Quei fedeli sarebbero “sotto il vescovo di Durango” ma questi è vecchierello e “dalla sua sede a Santa Fe corre una distanza di mille e cinquecento miglia inglesi. Non ci sono strade carrozzabili, non canali né corsi d’acqua navigabili. I trasporti commerciali vanno avanti per mezzo di muli, su piste malcerte e infide”. Tocca a un nuovo vicario apostolico, francese (“i missionari francesi hanno il senso delle proporzioni e degli accomodamenti razionali”), che all’epoca è parroco, trentacinquenne, di una diocesi sulle sponde canadesi del lago Erie.
Il romanzo che ne segue è un’immersione in quella particolare frontiera, con tutto ciò che si porta appresso. Ci sono le superstizioni degli indiani, il cattolicesimo rudimentale dei messicani, l’odio dei protestanti, criminali che maltrattano le mogli, c’è Kit Carson, ci sono villaggi interi di fedeli che alla vita “nel peccato” (al concubinato e allo sfornare marmocchi non battezzati) sono costretti dal semplice fatto che non vedono un prete da anni. C’è mezzo secolo di progresso, che sottrae spazio a una natura spesso ostile sospinto non da chissà quali prepotenti forze storiche ma dalle concrete decisioni degli uomini. E nel romanzo fanno capolino pure preti più e meno rispettabili, e magari fra i meno rispettabili c’è chi s’inventa uno scisma per sfuggire a un vescovo che esige venga onorato il celibato e preferisce condurre una vita moderatamente dissoluta. Eppure, lo ammette persino il pastore venuto a bastonare il cane imbizzarrito, sarebbe stato in altre circostanze un grand’uomo, dotato com'è di un eloquio impressionante, pifferaio perfetto di un gregge convertito si e no. Anche se vestono l’abito talare si tratta di uomini come tutti gli altri e un tema presente qui come nel capolavoro di Cather, Pionieri, è la dimensione schiettamente soggettiva delle scelte. Se sono i vincoli della vita associata a renderci responsabili delle nostre decisioni, esse provengono da atteggiamenti, sensibilità, preferenze individuali. Cather si diverte a mostrarci (è il caso di Latour e Vaillant ma non solo) che persone le quali pure hanno molto in comune non sono mai il replicante l’uno dell’altro. Le differenze increspano anche le amicizie in cui si è capaci di finirsi le frasi a vicenda e vicende biografiche in fondo simili possono gemmare caratteri diversi.
Il lettore di oggi fatica a immedesimarsi con due sacerdoti e c’è poco da stupirsi. Mi è capitato di sentir parlare di Mosè, “quello con la barca con gli animali”, e irridere alle “storielle della Bibbia” ragazzetti che non è che brillino per aver digerito i più sofisticati argomenti contro il “disegno intelligente”. L’amara verità è che mentre è esistita, con tutti i suoi difetti e i suoi soprusi, una fede dei semplici, fatta di preghiere in latino ripetute macchinalmente, di sangue di San Gennaro, di sbigottimento per i miracoli ma anche di devozione autentica, non c’è un “ateismo dei semplici”. La più parte degli esseri umani, quando smette di credere in Dio, comincia a credere ai bioritmi.
La morte viene per l’arcivescovo è un grande romanzo sulla frontiera e le sue trasformazioni, sul periodo che va dal ronzino alla proliferazione delle locomotive, quando per la prima volta nella storia le cose avevano cominciato a cambiare davvero, anno dopo anno. Il progresso non è esclusivamente economico: il vescovo Latour si accomiata dalla vita dicendo di aver “vissuto tanto da veder riparate due grandi ingiustizie: ho veduto la fine della schiavitù negra, e ho veduto resa ai Navajos la terra che era loro”. Ma La morte viene per l’arcivescovo può anche essere letta pensando a quello strano impasto di idee, comportamenti, abitudini che tiene insieme una società. A molti, soprattutto fra i più conservatori, piace riflettere sul ruolo che gioca la religione in quel frangente. Però una cosa è dire che la religione intreccia il sentire comune di un gruppo di esseri umani, altra pensare ai gesti che danno a queste parole un senso. Cather ci aiuta a riflettere sull’importanza del rito, dell’immagine (“Ah, pensava il Vescovo, che cosa è mai, per chi non sa leggere, l’Immagine, la forma fisica dell’amore!”), su come il comportamento del clero rinsalda o umilia le convinzioni delle donne e degli uomini, su come la prudenza anche nei rapporti con la superstizione sia più efficace dell’eccesso di fiducia in se stessi. Molto c’è, ovviamente, sul rapporto, che riempie pagine e pagine di letteratura, spesso sarcastica, fra il sacerdote e le piccole cose, una bella bottiglia di Borgogna o una zuppa come si deve, anche in un angolo della terra tanto lontano dalla Francia.
Una delle vicende più interessanti è quella della costruzione della cattedrale di Santa Fe: “una chiesa semplice, ma che sfidi i secoli”, che assomigli “a qualche cosa vicino a casa nostra, il vecchio castello dei Papi ad Avignone” perché “è il nostro Midi Romanesque, lo stile adatto per questo Paese”. Fra parentesi, così più o meno evidentemente ragionava anche il vero Lamy, a giudicare dal risultato. Padre Vaillant, tanto devoto al suo vecchio compagno di studi, è stupito dai desideri dell’amico, ci intuisce un po’ di vanagloria (“i tuoi antenati, se non sbaglio, hanno aiutato a costruire la cattedrale di Clermont”) e soprattutto gli paiono inutili. “Il tempo passa su tutte le cose”, meglio occuparsi di anime e fedeli. Le cattedrali, ammette, sono senz’altro una cosa importante, ma “non mi figuravo che tu avessi in animo di intraprender la costruzione di un tempio così ricco, quando tutto ciò che ci circonda è tanto povero… a cominciare da noi”.
Ma la cattedrale non è per noi, Joseph. Noi costruiamo per l’avvenire, se non ce ne sentissimo capaci, tanto varrebbe non posare nemmeno una pietra.
Per Latour, la solennità degli edifici è una scommessa col futuro, si costruisce oggi perché quella chiesa resti e sia ancora bella e susciti ancora ammirazione di qui a cent’anni. Ma è anche uno dei conforti della religione.
Quando il vescovo incrocia una vecchia serva messicana, a servizio da una famiglia di protestanti che le impediscono di andare a messa, e la conduce lui in chiesa, sollevandola dal sagrato dove questa si è accovacciata nel mezzo della notte, dopo essersi furtivamente sottratta alla sorveglianza dei suoi padroni, coglie l’importanza della dimensione più materiale della religione, incluse quelle orrende offerte votive che in America Latina è tanto comune trovare parcheggiate sotto gli altari.
Mai come in quella brumosa notte di dicembre, raccontava in seguito il Vescovo a Padre Vaillant, mai gli era stato concesso veder coi propri occhi effetti così profondi delle sante gioie di cui è fonte la religione. Inginocchiato a fianco della vecchia, percepiva quale inestimabile valore avessero, per la poveretta che nulla possedeva al mondo, i sacri arredi: le ampolle, l’effigie della Vergine, le figure dei Santi, la Croce che spogliava la sofferenza d’ogni indegnità, e del dolore e della povertà faceva un mezzo di fratellanza con Cristo.
Oggi è più comune vedere in tutto questo un sopruso, una sorta di distorsione di fondi dal core business della Chiesa cattolica alla vanità, ormai isterilitasi, di addobbare lo spazio per dare un segno della potenza di Dio o, più probabilmente, dei suoi rappresentanti su questa terra. E c’è senz’altro del vero, in questa polemica ormai fin troppo facile. Tuttavia, non c’era solo questo. C’era anche qualcosa che non era semplicemente il segno di una cultura, ma quella cultura stessa, che aiutava a far vivere le persone le une con le altre in modo più pacifico di quanto avrebbero fatto altrimenti. La religione non è l’unico ingrediente, ovviamente: ci sono codici di comportamento plasmati dall’asprezza del clima, retaggi di culture precedenti, l’esperienza dell’altro che è fatta delle meschinità come delle virtù dei nostri dirimpettai. Tutto questo “fa” il Paese che si forma sotto gli occhi del vescovo Latour, come una coperta patchwork tessuta da tante mani.
Ragionare su come la “cultura” incrocia la vita dei gruppi umani, e li forgia, li protegge, o al contrario li sconvolge, non è mai facile. La morte viene per l’arcivescovo aiuta a farlo in modo meno scontato di quanto non facciano molti paper di sociologi o economisti che ragionano su queste questioni come se si trattasse del movimento degli astri e non di esseri umani come noi. Questa è la forza del romanzo. E, lasciando perdere tutte queste elucubrazioni, La morte viene per l’arcivescovo è un gran bel romanzo.
Willa Cather, La morte viene per l'arcivescovo, trad.it. Giovanna Scocchera, Vicenza, Neri Pozza, 2008, pp. 272.
"Ragionare su come la “cultura” incrocia la vita dei gruppi umani, e li forgia, li protegge, o al contrario li sconvolge, non è mai facile". Forse non si può nemmeno "ragionare" più che tanto. Ma sono esperienze esistenziali. La mia è stata quella del Camino Real in California. A Carmel, la mission, un edificio modestissimo, rudimentale e piccolissimo in mezzo a una natura piuttosto selvaggia, e dietro, un cimitero dove sono sepolti migliaia di indios sterminati probabilmente dai virus dei Padri Missionari europei. E percepire la vitalità aggressiva di questa insignificante appendice di Europa che, predicando la castità e il celibato, ma praticandola meno, si avviava ad occupare e ripopolare, sostituendo i nativi, un continente dove da 30.000 anni qualche milione di indios sparsi in un Eden pieno di serpenti a sonagli e scorpioni, si limitava a sgozzarsi occasionalmente. E devo dire che non ho provato la stessa "emozione" a Plymouth dove i Pilgrim Fathers sono finalmente riusciti a farsi passare il mal di mare. Sarà che l'enormità dell'Ovest desertico sovrasta anche i brividi delle gelide e infide acque di Cape Cod, sarà che il New England è così europeo, sarà che le villette in stile colonial revival sono così rassicuranti...ma...niente