A diciassette anni dalla Terra desolata, T.S. Eliot pubblica questo libro di poesie gattesche, somministrate nel corso degli anni Trenta ai suoi figliocci e ai figli di alcuni amici. Dalla seconda edizione in poi, sono illustrate a regola d’arte. Si tratta, Eliot vivente, probabilmente del suo lavoro più venduto. Sono poesie che migliaia di mamme inglesi avranno letto ai loro bambini, ma di questi ultimi soltanto uno era Andrew Lloyd Webber che ne trae ispirazione, quarant’anni dopo, per Cats, uno dei musical di maggior successo nella storia dei musical.
Eliot aveva traccheggiato col libro per un po’ di tempo, già due anni prima dell’uscita alcuni poemetti erano stati letti alla radio. Più che il timore delle reazioni dei critici, contavano questioni personali.
Un gatto, spiega Eliot nella penultima poesia, non è un cane. Quest’ultimo (“con l’eccezione, ovviamente, dei cani pechinesi / e simili esemplari di stramberia canina”) "nel complesso / è di animo brado, per non dire fesso”. Il massimo piacere del cane è recitare il ruolo del buffone, a beneficio del padrone. “Un cane è così goffo e così poco astuto / che risponde a ogni fischio e ogni saluto”.
Eliot, hanno notato alcuni suoi interpreti, associa i cani alla “massa analfabeta e acritica”, i cui legami con la tradizione ormai sono scissi, che si è alienata dalla religione e che finisce facilmente abbindolata dal primo pifferaio di passaggio. Povere bestie, che mai gli avranno fatto? Ecco il fatto personale. La moglie, Vivienne Haigh-Wood, da cui si era separato nel ‘33 dopo anni di litigi, si era unita al partito di Oswald Mosley. Scrive Henry Hart che “negli anni in cui Eliot componeva le sue poesie gattare (dal 1932 al 1938), l’istrionica Vivienne spesso si vestiva di tutto punto in uniforme fascista e andava all’inseguimento di Eliot per le strade di Londra”, con il suo Yorkshire al guinzaglio. I due ex coniugi erano, insomma, come cane e gatto.
Anche per questo, mentre a molti contemporanei Il libro dei gatti tuttofare parve una bizzarria (assai di più furono quelli che lo presero per i loro figli), studiosi successivi ci hanno scavato parecchio. Per un cultore di Eliot come Russell Kirk, non bisogna perder di vista le date:
I versi di Eliot su Sandogatt, Vecchio Deuteronomio, Mister Mefistofele, Brunero il gatto del mistero, Pelastinco Rotella de’Binario gatto ferroviario e il resto del suo equipaggio vennero scritti quando la civiltà stava per esplodere; quando lo stato degli affari pubblici aveva prodotto in Eliot una “depressione dello spirito tanto diversa da qualsiasi altra esperienza vissuta a cinquant’anni”; quando egli ritenne necessario chiudere la sua nobile rivista, The Criterion. Erano scritti per dei bambini piccoli, e con l’assistenza e raccogliendo le severe critiche dei figli di diversi amici. L’Inghilterra dichiarò guerra alla Germania il 3 settembre 1939; il Libro dei gatti tuttofare fu pubblicato esattamente il mese dopo.
Ne “De la orribile pugna dei visicani e degli ostropeki” (qui la versione di Andrew Lloy Webber), il “Gran Rompisgattolo” mette ordine nella cagnara scoppiata, appunto, fra due gruppi di quadrupedi che abbaiano all’impazzata.
Se davvero per Eliot i cani rappresentavano una massa indistinta e felice di mandare il cervello all’ammasso, i suoi gatti hanno ciascuno una vita ben precisa, Rotella per esempio “è il vero addetto / al personale del Vagone Letto. / Dal macchinista ai controllori fino / a quelli dei bagagli che giocano a ramino, / non si sfugge alla sua sovrintendenza”. Quest’idea che il gatto stia al mondo essendo ben consapevole di dov’è e di quel che fa, impegnando il suo tempo in una precisa funzione, e magari, come il Tiremmolla “lui alla fine fa / solo quel che gli va / e non c’è modo di cambiarlo”, suggerisce invece l’identificazione del gatto con quello che non se la beve. Con chi non rinuncia a prendere le misure alla realtà, con chi è curioso delle cose, con chi prova a ragionare con la propria testa. Sempre il Tiremmolla “se gli date del pesce vorrebbe del coniglio, / se non c’è pesce vi mette lo scompiglio, / e la panna l’annusa con aria disdegnosa; / gli piace solamente quello che scova da sé”.
Il libro si apre con una poesia sul nome dei gatti (qui come è stata resa in Cats). Ciascuno ha
TRE NOMI DIFFERENTI. Prima di tutto quello che in famiglia
potrà essere usato quotidianamente,
un nome come Pietro o come Augusto, o come Alonzon, Clemente,
come Vittorio o Gionata, oppure Giorgio o Giacomo Vaniglia
tutti nomi sensati per ogni esigenza corrente.
Poi però
(…) un gatto ha bisogno di un nome
che sia particolare e peculiare, più dignitoso;
come potrebbe, altrimenti, mantenere la coda perpendicolare,
mettere in mostra i baffi o sentirsi orgogliosi?
Nomi di questo genere posso fornirvene un quorum,
nomi come Mustràppola, Tisquàass o Ciprincolta,
come Bombalurina o Mostrardorum,
nomi che vanno bene soltanto a un gatto per volta.
Manca il terzo:
quello che non potete nemmeno indovinare,
Né la ricerca umana è in grado di scovare;
ma IL GATTO LO CONOSCE, anche se mai lo confessa.
Quando mette un gatto in profonda meditazione
la ragione, credetemi, è sempre la stessa:
ha la mente perduta in rapimento ed in contemplazione
del pensiero, del pensiero del suo nome:
del suo ineffabile effabile effineffabile
profondo inscrutabile ed unico NOME.
Questi versi (la traduzione di Roberto Sanesi è ottima ma per leggerla in inglese cliccate qui) più che anticipare spiegano il senso dei successivi. In quell’apparire altero del gatto, nell’irritante indifferenza per attenzioni e regali che farebbero scodinzolare un cane mille volte, nel suo starsene sulle sue e centellinare musate e fusa, c’è il mistero dell’individualità. Il gatto, a differenza del cane, vuol essere un individuo.
Ora avete imparato abbastanza per capire
che un Gatto non è affatto differente
né da voi né da me né da altra gente
che si ritiene abbia un tipo di mente diversa.
Quelli di Eliot sono spericolati “gattacci” che sfasciano tutto (Gattatràc e Gattafascio), ma che possono anche venir distrutti dall’amore, come il “terrore del Tamigi”, Sandogatt, di cui pure “l’aspetto e le maniere non erano studiati per piacere”. Non sono cartoni animati, o attori di un musical, in cui a personaggi umani è stato fatto obbligo d’indossare una pelliccia. Le loro sono avventure gattesche, reinterpretate da penna umana, nella convinzione che essi somiglino a degli umani: ai meno banali, fra gli umani.
Nel mondo di oggi quella per gli animali da compagnia è diventata una specie di ossessione e la gattofilia è molto più diffusa che ai tempi di Eliot. Il quale era un gattaro non solo letterario: ci sono delle sue belle foto col gatto George (nome completo George Pushdragon) e ne ebbe parecchi altri. Coi felini, aveva familiarità sin da piccolo: il padre, un imprenditore di successo del Missouri, faceva disegni di gatti a matita.
I livelli di lettura del Libro dei gatti tuttofare sono diversi. Come spesso accade, il primo, il più lineare, è il migliore: godersi i versi e le avventure feline. Sull’individualità del gatto si può anche non riflettere per nulla, tanto è un fatto che si impone: nelle pagine di Eliot come nella vita.
T.S. Eliot, Il libro dei gatti tuttofare (1939), illustrato da Axel Scheffler, Milano, Bompiani, 2014, pp. 80.